Al Bar dei Daini oggi la conversazione scorre come una linea di codice impazzita, tra un espresso e un Negroni, mentre la parola che rimbalza da un tavolo all’altro è sempre la stessa: “AI”. Non c’è più bisogno di spiegare cosa significhi, la sigla è diventata un mantra universale che abbraccia dai grafici della Federal Reserve alle chat dei gamer su Roblox. Il paradosso è che l’AI non è più nemmeno una tecnologia, è un’ossessione collettiva, un’asset class, un campo di battaglia geopolitico e un circo mediatico in diretta 24/7.

Si parte dai semiconduttori, quei piccoli rettangoli luminosi che hanno trasformato l’economia americana in un gigantesco videogioco finanziario. Nel 2025 il mercato dei chip negli Stati Uniti non è più solo questione di domanda e offerta, ma di pura sopravvivenza industriale. Rebecca Szkutak lo descrive con la precisione di un referto medico: senza semiconduttori non c’è AI, senza AI non c’è crescita, senza crescita il Nasdaq implode e i CEO si ritrovano a fare i camerieri al Bar dei Daini. La timeline del settore è un rosario di fusioni, capex da capogiro e accordi da dieci miliardi come quello che ha spinto Broadcom a volare in borsa. Il CEO ha pure giurato di restare più a lungo, e Wall Street lo ha accolto come fosse Mosè sceso dal Sinai con le tavole dei chip invece che della legge.

Poi c’è OpenAI che, stanca di comprare GPU a peso d’oro, ha deciso di entrare nella partita con Broadcom per costruire il proprio chip. È la consacrazione definitiva: l’AI che si autoalimenta, l’azienda che produce il suo stesso carburante per non restare mai a secco. Un modello che ricorda certe dinastie medievali, dove il re si sposava con la cugina per mantenere intatto il patrimonio. Solo che qui il patrimonio non è sangue blu, ma transistor blu elettrico che brillano sulle schede madri come stelle artificiali.

Nel frattempo Anthropic mostra i muscoli e chiude l’accesso alle aziende controllate da Pechino. Questione di sicurezza nazionale, si dice, ma il retrogusto sa tanto di guerra fredda digitale. È come se il nuovo Muro di Berlino fosse costruito non di cemento ma di API. Una barriera invisibile che divide chi può giocare con l’AI e chi resta fuori dal parco divertimenti. E non è un caso che a commentare queste mosse siano le stesse banche d’affari che un giorno pompano capitali e il giorno dopo predicano rischi: Goldman Sachs ci ricorda che il boom dell’AI dipende dagli investimenti mostruosi degli hyperscaler, ma che basta un inciampo per trasformare l’euforia in recessione.

Il pubblico del Bar dei Daini però non si appassiona solo ai chip. Quando qualcuno tira fuori lo smartphone e mostra che Roblox ha introdotto un feed video in stile TikTok per le clip di gameplay, la sala esplode in un misto di entusiasmo e sarcasmo. Non bastava colonizzare l’infanzia digitale, adesso la piattaforma vuole diventare anche social network. La vera notizia però è che Roblox sta testando nuovi strumenti AI per i creator, come se fosse normale delegare la creatività alle macchine. Un tizio con la barba lunga e un MacBook vecchio commenta secco: “Tra poco i bambini faranno la merenda in AI”.

La lista di titoli che gira sullo schermo del bar sembra un bollettino di guerra economica. Tesla chiede ai suoi azionisti di votare per un investimento in xAI, l’ennesima creatura partorita da Elon Musk. È lo stesso Musk che ieri litigava con l’Europa sulla regolazione dei contenuti e oggi vuole convincere i suoi fan a seguirlo in una nuova crociata tecnologica. La schizofrenia fa parte del pacchetto, eppure il titolo Tesla vola lo stesso. A qualcuno viene il dubbio che i mercati non stiano più valutando aziende, ma narrazioni mitologiche.

E mentre Warner Bros. cita in giudizio Midjourney per avere creato immagini AI di Batman e Superman, un avventore del bar ride forte e dice che la vera giustizia poetica sarebbe vedere Bruce Wayne costretto a pagare royalties alla GPU di Nvidia. La proprietà intellettuale nell’era dell’AI è come una barca che affonda con un buco più grande del Titanic, e le major provano a tappare l’acqua con le dita.

Ma la pioggia di soldi non si ferma. Sierra, la nuova startup fondata da un ex di Salesforce, raccoglie 350 milioni di dollari con una valutazione da 10 miliardi. Un unicorno nato già adulto, come Minerva che salta fuori dalla testa di Giove armata e pronta per la battaglia. Docusign e UiPath fanno la stessa mossa: annunciano numeri scintillanti grazie agli strumenti AI e subito il mercato applaude con riflesso pavloviano. È come se bastasse infilare la parola magica “AI” in un comunicato stampa per stampare valore di borsa.

Nel retro del bar, qualcuno legge ad alta voce che Nvidia e Quantinuum collaborano, che OpenAI assume il team dietro un assistente di codice, che Snapchat lancia una nuova Lens per generare immagini da prompt testuali. Ogni titolo sembra identico al precedente, ma con un marchio diverso. È il segno che il mercato tecnologico USA vive una fase di bulimia comunicativa. Tutti devono annunciare qualcosa legato all’AI, altrimenti rischiano di essere esclusi dal banchetto. La competizione non è più sulla qualità delle innovazioni ma sulla frequenza dei comunicati stampa.

Al Bar dei Daini non manca neanche l’ironia da salotto. Qualcuno paragona l’attuale febbre AI al mercato immobiliare del 2007: la stessa euforia cieca, gli stessi rating gonfiati, gli stessi CEO che parlano di rivoluzione mentre preparano le scialuppe di salvataggio. Altri sostengono che stavolta sia diverso, perché i semiconduttori sono la nuova infrastruttura critica come il petrolio nel Novecento. Senza chip avanzati, nessuna economia può reggere. È un’arma strategica e allo stesso tempo una droga che crea dipendenza.

Il bello di questo bar è che il flusso non si ferma mai. Tra un’analisi e l’altra si insinua sempre una battuta, una citazione, un accenno di cinismo. Uno racconta che il vero indicatore dell’AI non è il Nasdaq ma la quantità di power point generati ogni giorno negli uffici delle corporate americane. Un altro sostiene che presto vedremo fondi speculativi che scommettono non sui titoli tecnologici ma sulle probabilità che ChatGPT rifiuti una domanda troppo stupida. In mezzo c’è chi ricorda che l’Europa, con le sue regolamentazioni, appare più come un freno che come un motore, e intanto gli Stati Uniti consolidano la loro egemonia nel mercato dei semiconduttori.

Il flusso scorre e alla fine ci si accorge che l’AI non è solo una tecnologia ma il nuovo linguaggio universale della finanza e della politica. Non esistono più compartimenti stagni, tutto converge in una gigantesca narrativa che unisce chip, social network, startup miliardarie e guerre legali. La timeline del 2025 è già scritta: una corsa forsennata in cui i protagonisti non sono più solo le aziende ma le stesse macchine che generano valore, immagini, testi e forse illusioni. Al Bar dei Daini resta solo una certezza: chi non parla di AI oggi rischia di non avere nulla da dire domani.