OpenAI non è più una startup che gioca a fare il futuro, è un conglomerato finanziario-tecnologico che ha deciso di trasformare la sua fame di potenza computazionale in una guerra di logoramento contro la fisica, i capitali e la concorrenza. La notizia che l’azienda, sostenuta da Microsoft, prevede di bruciare fino a 115 miliardi di dollari entro il 2029 ha il sapore di quelle dichiarazioni che non si leggono nei report trimestrali ma nei manuali di geopolitica economica. In sei anni OpenAI si propone di spendere più del PIL di un paese medio. Una cifra che lascia intendere due cose: o hanno davvero intenzione di riscrivere le leggi della produttività, oppure stanno costruendo il più grande fuoco di artifici tecnologico della storia.
Il piano è chiaro: i chip proprietari. L’ossessione per il controllo dei costi cloud ha spinto Sam Altman a fare quello che, in Silicon Valley, rappresenta la più alta forma di arroganza industriale, ovvero costruire da sé i motori della propria rivoluzione. È la logica che ha trasformato Apple in Apple e Tesla in Tesla. Per OpenAI l’alleanza con Broadcom è una dichiarazione di indipendenza da Nvidia e dal mercato delle GPU che oggi strozza l’intera filiera dell’intelligenza artificiale. In questo scenario, il cloud non è più un servizio da noleggiare ma un feudo da conquistare e presidiare.
La popolarità di ChatGPT ha reso OpenAI il più grande affittuario di server del pianeta, una condizione che non può durare senza portare i bilanci sull’orlo della follia. Il passaggio a infrastrutture proprietarie significa non solo tagliare costi, ma soprattutto trasformare il debito operativo in asset strategico. Chi controlla i chip controlla il linguaggio. Chi controlla i data center, controlla la curva dell’innovazione. Non è un caso se, parallelamente, Microsoft gioca la parte dello sponsor silenzioso ma determinato: per Redmond questo è il modo più efficace di mantenere la leva sull’ecosistema AI senza sporcarsi troppo le mani.
Gli analisti possono parlare di proiezioni e forecast, ma la verità è che la traiettoria è una spirale che ricorda l’euforia della bolla dotcom, solo che stavolta i numeri sono dieci volte più grandi e i protagonisti hanno imparato a non lasciarsi fermare dalle correzioni di mercato. Spendere più di 8 miliardi nel 2024, con un burn rate che può raddoppiare oltre i 17 miliardi, non è una proiezione, è un manifesto. È la presa di coscienza che l’intelligenza artificiale non è più un prodotto, ma un’infrastruttura globale da trattare come l’energia nucleare o la rete elettrica.
Se le stime sono corrette, nel 2027 e 2028 OpenAI supererà rispettivamente 35 e 45 miliardi di spesa annua. A quel punto, i numeri non descrivono più una società, ma un modello di governance tecnologica che si colloca tra Wall Street e il Pentagono. Il fatto che un’azienda privata possa programmare livelli di investimento superiori a quelli dei più grandi programmi pubblici di ricerca scientifica ci dice molto più del futuro dell’AI di quanto possano fare i paper accademici.
C’è un’ironia sottile in tutto questo. L’azienda nata come laboratorio no-profit per democratizzare l’intelligenza artificiale è diventata l’emblema dell’oligopolio computazionale. Democratizzazione, oggi, significa convincere gli investitori a finanziare il più grande banchetto energetico della storia dell’IT. OpenAI non costruisce solo chatbot, costruisce un nuovo ordine infrastrutturale. E chi non vede in questa accelerazione una battaglia geopolitica, probabilmente non ha capito che le guerre del futuro non si combattono con le armi, ma con i data center.