Ci sono momenti nella storia della tecnologia in cui una voce filosofica riesce a interrompere il rumore di fondo dei bit e dei bilanci trimestrali. Shannon Vallor è una di queste voci. Filosofa americana, docente all’Università di Edimburgo e direttrice del Centre for Technomoral Futures, Vallor non parla di etica come un esercizio accademico per addetti ai lavori, ma come una strategia di sopravvivenza per una civiltà che ha affidato la propria capacità di giudizio al calcolo automatizzato. L’etica dell’intelligenza artificiale, nel suo pensiero, non è un paragrafo di regolamento europeo, ma una disciplina morale che decide se l’umanità sarà ancora capace di desiderare un futuro degno di sé.

La sua traiettoria personale è già una metafora della tensione tra innovazione e coscienza. Dalla Silicon Valley all’Europa, Shannon Vallor ha portato nel cuore dell’industria digitale la voce antica di Aristotele e di Confucio. Ha insegnato alla Santa Clara University, a pochi chilometri da quei campus dove l’AI si costruisce come prodotto, non come progetto umano. Poi ha scelto Edimburgo, città di luci e nebbie intellettuali, per fondare un centro dedicato a ciò che lei chiama il “futuro tecnomorale”. Un nome che suona come un ossimoro ma che, nella sua visione, è l’unica via d’uscita dall’automazione cieca dei nostri comportamenti digitali.

Nel suo libro più celebre, Technology and the Virtues: A Philosophical Guide to a Future Worth Wanting, Vallor compie un gesto quasi rivoluzionario: invece di aggiungere un altro capitolo alla sterminata bibliografia dell’etica delle macchine, sposta il fuoco sulla formazione del carattere umano nell’era dell’AI. Non basta discutere se un algoritmo sia giusto o sbagliato. Occorre chiedersi se noi, esseri umani, possediamo ancora le virtù necessarie per convivere con le nostre creazioni intelligenti. È un capovolgimento radicale del paradigma etico: l’intelligenza artificiale non è un problema tecnico, è uno specchio morale. E in quello specchio, dice Vallor, vediamo riflessa la nostra incapacità di gestire il potere che abbiamo delegato ai sistemi che apprendono più velocemente di noi.

Nella visione di Vallor, la cosiddetta AI etica delle virtù nasce dall’unione di due mondi che raramente dialogano. Da un lato la tradizione della filosofia morale, fondata sulla coltivazione delle virtù. Dall’altro la cultura tecnologica, ossessionata dalla performance e dalla scalabilità. Il suo invito è semplice solo in apparenza: imparare a essere virtuosi nell’uso e nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Coltivare virtù tecnomorali come l’onestà digitale, la temperanza nell’uso dei dati, la giustizia algoritmica e quella che chiama empatia mediata. Tutte parole che suonano come un lessico etico dimenticato, riscritto in linguaggio binario.

L’onestà tecnologica, spiega Vallor, è la capacità di riconoscere i limiti dei sistemi che creiamo, invece di credere nella loro infallibilità. È la virtù che manca quando un modello predittivo viene trattato come oracolo. La temperanza digitale è l’antidoto all’ubriacatura dei dati e al culto dell’efficienza. La giustizia algoritmica è la forma più moderna della vecchia aspirazione all’equità. L’empatia mediata è la prova che anche attraverso uno schermo si può restare umani, se si impara a non confondere il contatto con la connessione. Vallor non idealizza la tecnologia, ma nemmeno la demonizza. La guarda negli occhi come un pari, chiedendole conto della sua moralità.

Il suo ultimo libro, The AI Mirror, va ancora più a fondo. Qui l’intelligenza artificiale diventa un dispositivo psicologico e culturale. Non è soltanto una macchina che imita la nostra intelligenza, ma uno specchio che riflette i contorni della nostra umanità aumentata. Vallor osserva che ogni sistema di AI, dalla più innocente raccomandazione di film fino ai modelli generativi che creano testi e immagini, rivela le priorità della civiltà che lo ha progettato. Se l’AI è veloce ma superficiale, è perché noi stessi preferiamo la rapidità alla riflessione. Se è precisa ma priva di compassione, è perché abbiamo accettato la logica della previsione come sostituto della comprensione.

In The AI Mirror, Vallor domanda provocatoriamente se la vera minaccia non sia l’intelligenza artificiale, ma la stupidità umana automatizzata. È una domanda che farebbe sorridere un ingegnere di Stanford, ma che diventa inquietante quando la si applica alle istituzioni, ai mercati, alla politica. Ogni volta che deleghiamo a un algoritmo la decisione di cosa leggere, comprare o votare, stiamo cedendo una parte del nostro discernimento morale. Eppure la soluzione non è la fuga nella nostalgia analogica. Vallor propone piuttosto un futuro tecnomorale in cui la tecnologia diventi terreno di coltivazione etica, non di sostituzione umana.

Il suo pensiero non si limita all’accademia. Vallor collabora con governi, aziende e organizzazioni internazionali per tradurre i principi della filosofia morale in framework operativi per l’innovazione responsabile. Nella sua visione, l’etica dell’intelligenza artificiale non deve restare confinata nei paper universitari, ma entrare nei boardroom dove si decidono le strategie di prodotto. È lì, nei diagrammi di flusso e nei cicli di deployment, che le virtù tecnomorali devono diventare linee guida pratiche. Perché la responsabilità etica non si misura in saggi pubblicati, ma in codice rilasciato.

Alla Royal Philosophical Society of Glasgow, nell’ottobre 2024, Vallor ha messo a nudo il paradosso della nostra epoca. Viviamo in un tempo in cui l’intelligenza è ovunque, ma la saggezza è scomparsa dai radar. La domanda, dice, non è come rendere più umana l’intelligenza artificiale, ma come rendere più intelligente l’umanità che la usa. La risposta non è ideologica, ma praticabile: dobbiamo coltivare virtù intellettuali e morali che ci permettano di usare la tecnologia come estensione delle nostre capacità migliori. L’AI, se ben guidata, può amplificare la prudenza, la giustizia, la creatività. Se lasciata a se stessa, amplifica la nostra arroganza e la nostra disattenzione. La differenza, ancora una volta, è una questione di virtù.

Per l’Italia, il pensiero di Shannon Vallor è una boccata d’aria in un dibattito spesso polarizzato tra paura e fascinazione. L’Europa ha scelto la via della regolamentazione, come dimostra l’AI Act, ma rischia di trasformare l’etica in burocrazia. Vallor invece propone un’etica incarnata, vissuta, che parte dal carattere umano prima che dal codice normativo. Le università italiane stanno iniziando a integrare corsi di filosofia della tecnologia e intelligenza artificiale etica, ma il salto culturale vero avverrà solo quando gli ingegneri parleranno la lingua dei filosofi e i filosofi impareranno a leggere il linguaggio del machine learning. È in questa ibridazione che può nascere il futuro tecnomorale dell’intelligenza artificiale.

Non è un caso che la prospettiva di Vallor risuoni con la tradizione umanistica europea. L’idea che la tecnologia debba essere al servizio della fioritura umana, e non viceversa, ha radici profonde nella nostra cultura. Ma ciò che Vallor aggiunge è la consapevolezza che non basta difendere l’umanesimo, bisogna reinventarlo per l’era algoritmica. L’intelligenza artificiale è il nuovo specchio di Narciso, e chi ci guarda dentro rischia di innamorarsi della propria proiezione digitale. La differenza tra la catastrofe e il progresso sta nel riconoscere lo specchio per ciò che è: una superficie riflettente, non una verità assoluta.

Nel mondo delle AI generative, dove i modelli come ChatGPT o Midjourney riscrivono la creatività, il pensiero di Vallor assume una forza quasi profetica. Ci ricorda che ogni tecnologia è una scuola morale. Ogni linea di codice insegna qualcosa su chi siamo e su chi vogliamo diventare. La domanda che dovremmo porci non è più se l’AI sia buona o cattiva, ma se noi siamo pronti ad essere buoni artefici di una nuova intelligenza collettiva. L’etica dell’intelligenza artificiale, nella sua forma più matura, non è un freno all’innovazione, ma il suo catalizzatore evolutivo.

Shannon Vallor rappresenta una generazione di filosofi che non osservano la rivoluzione tecnologica da lontano, ma la abitano. Il suo messaggio non è consolatorio, è una sfida. L’AI ci mostra ciò che siamo. Se impariamo a leggere il suo riflesso, potremmo ancora costruire un futuro che valga la pena volere. Se invece restiamo ipnotizzati dallo specchio, diventeremo i fantasmi digitali della nostra stessa intelligenza.