C’è un momento preciso in cui il marketing smette di essere semplice comunicazione e diventa teologia. È quello che accade quando un colosso come Oracle decide di ribattezzare il suo evento storico “CloudWorld” in “Oracle AI World 2025”, come se l’intelligenza artificiale non fosse più un tema tra gli altri, ma l’unica lingua ammessa nel tempio della tecnologia. La scelta è tanto simbolica quanto strategica. Significa dichiarare guerra non solo ai concorrenti ma anche al sospetto, ormai diffuso, che l’AI sia l’ennesima illusione ciclica, un déjà-vu dei tempi del cloud, dell’IoT e del metaverso.

L’aria che si respira qui a a Las Vegas al The Venetian alla vigilia di Oracle AI World 2025 è quella delle grandi occasioni miste a una sottile ironia. I nerd che si agitano con il loro badge al collo da tutti i paesi del mondo, in un casinò che li percepisce come fantasmi, parlano di rivoluzione, i commenti di utenti e sviluppatori parlano di attesa controllata. Non si tratta più di capire se l’AI cambierà il mondo, ma se Oracle sarà davvero in grado di usarla per farlo funzionare meglio. Gli hashtag lanciati dai loro telefonini nella food hall al secondo piano #AIWorld e #OracleAI circolano ovunque ma senza esplodere. Un segnale rivelatore per chi osserva i numeri: quando l’engagement non cresce proporzionalmente all’hype, significa che la comunità sta aspettando di vedere se la montagna partorirà un algoritmo o un’altra slide.

Accanto a una Slot Machine si parla di come Oracle voglia posizionarsi come piattaforma di riferimento per l’AI enterprise, sfruttando la propria architettura cloud Oracle come infrastruttura di calcolo ad alte prestazioni, capace di ospitare modelli generativi e agenti intelligenti. Ma il vero nodo è la credibilità. L’azienda promette AI “embedded”, cioè integrata in ogni componente delle sue soluzioni, dai database ai sistemi ERP. È una visione affascinante, ma il rischio di scivolare nella solita sindrome del “AI everywhere” è dietro l’angolo.

Durante le settimane precedenti all’evento, molti hanno cominciato a chiedersi se Oracle non stia solo appiccicando l’etichetta AI su tutto. È un sospetto quasi inevitabile quando il linguaggio dell’innovazione si uniforma a quello della moda. Da Cloud a AI il passaggio è stato netto, ma resta da capire se la sostanza seguirà. Alcuni analisti si aspettano che Larry Ellison usi il palco di Las Vegas per spingere una narrativa di potenza infrastrutturale, presentando OCI come la macchina definitiva per addestrare e servire modelli generativi. Altri, più caustici, prevedono un keynote pieno di superlativi e poche dimostrazioni concrete.

Il paradosso è che Oracle si trova in un momento favorevole. I mercati le riconoscono una solidità che altre big tech invidiano. Ma ogni promessa di margini nel cloud Oracle ora si lega inevitabilmente alla capacità di monetizzare l’intelligenza artificiale. Gli investitori vogliono capire se il valore non è solo nelle GPU installate ma nei risultati misurabili. Un ROI tangibile da AI enterprise, non solo una presentazione con luci e laser. Quando un CFO guarda l’AI, non vede modelli ma costi per GPU e licenze di training. La scommessa è convincere il mondo che dietro le slide ci sia un motore vero, capace di automazione e predizione in ambienti di business reali.

Tra gli addetti ai lavori, il tema dominante è quello della “credibilità algoritmica”. Oracle parla di agenti intelligenti che operano all’interno di applicazioni aziendali, prendendo decisioni autonome e suggerendo azioni basate su dati reali. È una visione potente, ma rischiosa. L’AI enterprise non perdona bug o latenza. Una decisione automatica sbagliata in un sistema finanziario o logistico non è un errore accettabile, è un incidente reputazionale. La sfida di Oracle è costruire fiducia in un settore dove la fiducia si misura in millisecondi e dollari risparmiati.

Qui intanto, la discussione è bifronte. Da un lato, sviluppatori entusiasti di vedere Oracle finalmente giocare d’attacco dopo anni di prudenza. Dall’altro, veterani che ricordano quante volte l’azienda abbia annunciato “il futuro del cloud” senza mai scalzare i leader di mercato. In questo contesto, Oracle AI World 2025 diventa più di una conferenza: è una prova di forza simbolica. Se l’azienda riuscirà a dimostrare che i suoi modelli non solo esistono ma funzionano meglio, potrebbe riscrivere la percezione stessa di cosa significhi AI enterprise.

L’ironia, inevitabile, si insinua tra i thread di X e LinkedIn. Qualcuno sussurra che “Oracle ha messo l’AI anche nel badge dell’evento”, altri si chiedono se le demo saranno live o pre-registrate. In mezzo, c’è un dibattito serio sulla trasparenza. Gli esperti vogliono sapere quanto saranno accessibili i modelli AI di Oracle, quali costi reali comporteranno, se esisteranno API aperte o tutto resterà chiuso in ecosistemi proprietari. Il pubblico enterprise non si accontenta più di slogan: vuole capire chi possiede i dati, dove risiedono, e quanto costa portarli via.

Durante l’evento, i social saranno il vero arbitro. Gli hashtag misureranno in tempo reale il successo o il fallimento della narrativa Oracle. Un keynote brillante ma privo di contenuti tecnici solidi potrebbe tradursi in un’onda di sarcasmo digitale. Al contrario, se verranno mostrati casi concreti, con clienti che testimoniano riduzioni di costi o automazioni misurabili, la reputazione del marchio potrebbe guadagnare un vantaggio competitivo difficile da replicare. Nella società dell’attenzione, la credibilità è il nuovo marketing.

Ciò che affascina è il modo in cui Oracle cerca di riappropriarsi del tempo. Dopo anni passati a inseguire, ora tenta di imporre la propria cadenza all’evoluzione dell’AI enterprise. Le collaborazioni con Google per l’uso di Gemini, le integrazioni con modelli di OpenAI e le promesse di ambienti “multi-modello” sono mosse da scacchista. Se riuscirà a dimostrare interoperabilità e prestazioni reali, Oracle potrebbe riconquistare centralità nel mercato enterprise. Ma se anche solo una di queste promesse apparirà gonfiata, la community tech non avrà pietà.

C’è qualcosa di quasi teatrale in tutto questo. Las Vegas è la città perfetta per celebrare l’illusione della macchina che pensa. Lì tutto è luce, rumore e promessa. Ma sotto le luci dei casinò, Oracle dovrà dimostrare che la sua intelligenza artificiale non è solo un lancio di dadi ben truccato. La differenza tra fede e fiducia, nel business, si misura nei secondi di uptime e nella coerenza dei risultati.

Nel frattempo, i competitor osservano. Microsoft e Google hanno già giocato le loro carte sull’AI generativa, mentre IBM tenta un ritorno d’immagine con il suo approccio più sobrio ma tecnicamente raffinato. Oracle deve trovare un linguaggio che non sembri imitazione. Se continuerà a parlare di “AI per tutti” senza dimostrare che la sua AI è per qualcuno, rischia di diluire il messaggio.

C’è un aspetto interessante nella percezione pubblica: molti giovani sviluppatori vedono Oracle come un colosso tradizionale, quasi conservatore. Trasformare questa immagine in quella di un innovatore AI richiede più di un rebranding. Serve una rottura narrativa, una capacità di raccontare l’intelligenza artificiale non come tecnologia ma come differenziale competitivo tangibile. I social saranno il banco di prova di questa metamorfosi.

Quando Oracle AI World 2025 chiuderà le porte, resterà una domanda sospesa: quanto di ciò che abbiamo visto sarà ancora vero tra sei mesi? Il ciclo dell’hype sull’AI è veloce, spietato. Ma chi riuscirà a costruire valore reale nella AI enterprise, integrando la potenza del cloud Oracle con la concretezza del business, potrebbe non solo sopravvivere ma guidare la prossima fase della trasformazione digitale.

Perché alla fine l’AI non ha bisogno di credenti. Ha bisogno di risultati e quelli, a differenza delle promesse, non si twittano.