Filosofia dell’intelligenza artificiale di Gino Roncaglia non è un punto di arrivo, ma un trampolino. Con rigore e stile “da tecnologo”, costruisce un ponte tra algoritmi e idee, tra probabilità e significato. Se vuoi capire come si ragiona filosoficamente sull’IA generativa oggi, è una lettura indispensabile. Non ti illuderà di dare risposte definitive, ma ti costringerà a porre le domande giuste e in questo campo, la qualità delle domande può fare la differenza.
Data di uscita: 28 ottobre 2025. Collana: Lezioni di Filosofia – Teoria e pratica del pensiero. In edicola con Corriere della Sera e Gazzetta
C’è un momento preciso in cui leggendo Filosofia dell’intelligenza artificiale di Gino Roncaglia si ha la sensazione di essere osservati. Non dal libro, ma dal soggetto stesso di cui parla: quell’intelligenza artificiale che, senza chiedere permesso, è diventata il nuovo specchio della nostra specie. È un testo breve ma densissimo, che non vuole spiegare l’IA in modo tecnico, né salvarci dall’apocalisse dei robot. Vuole, piuttosto, ricordarci che l’intelligenza artificiale non è un fenomeno da laboratorio, ma un esperimento di filosofia applicata che ci riguarda tutti, come individui e come civiltà.
La forza di questo libro sta nel tono sobrio, nel rifiuto delle profezie, nella capacità di restare in equilibrio tra stupore e lucidità. Roncaglia non si fa sedurre né dall’entusiasmo dei tecnologi né dal pessimismo dei teorici del disastro. Guarda la macchina con occhio umano, e l’umano con sguardo tecnico. È un gesto raro, quasi sovversivo, in un’epoca in cui la discussione sull’IA si è trasformata in una gara tra apocalittici e integrati digitali.
L’intelligenza artificiale, dice implicitamente l’autore, non è un oggetto ma un processo. Non è qualcosa che “fa cose” al posto nostro, ma un meccanismo che ridefinisce i confini stessi di cosa significhi pensare, creare, comprendere. Per la prima volta nella storia, il concetto di intelligenza non è più monopolio biologico. Il libro ci costringe a chiederci se il pensiero umano sia davvero unico o se non sia solo una variante evolutiva di un processo computazionale più ampio. È una domanda scomoda, quasi offensiva, ma indispensabile.
Ciò che emerge, leggendo Roncaglia, è che la vera sfida non è capire cosa l’IA può fare, ma cosa noi possiamo ancora comprendere di noi stessi guardando lei. Ogni descrizione tecnica diventa una lente filosofica. Quando parla di reti neurali, non è solo informatica: è una metafora della mente collettiva. Quando racconta la tokenizzazione, sta in realtà discutendo di linguaggio e di senso, due antiche ossessioni della filosofia e quando spiega perché i modelli generativi “allucinano”, non denuncia un difetto tecnico ma ci mostra un paradosso antropologico: anche noi, spesso, confondiamo la coerenza con la verità.
Il libro trasmette una sensazione precisa, quella di vivere in un’epoca di confine. Roncaglia ci invita a prendere sul serio l’idea che la macchina stia assumendo un ruolo epistemico, non solo operativo. L’IA non si limita a calcolare: produce significato, o almeno l’illusione di farlo. E qui nasce il problema etico più profondo, ben oltre la regolazione normativa. Se un algoritmo può convincerci con parole sensate ma prive di comprensione, cosa resta del valore della conoscenza? Il rischio non è che le macchine ci sostituiscano, ma che ci abituino a una versione debole della verità.
C’è ironia, a volte amara, nel modo in cui Roncaglia accosta la cultura pop ai dilemmi filosofici. La vera minaccia non è la ribellione delle macchine, ma l’ambiguità dei nostri desideri proiettata nei loro codici.
Il libro trasmette anche un messaggio implicito ma fondamentale: l’intelligenza artificiale non è ancora intelligente, ma ci obbliga a ridefinire la parola “intelligenza”. Non esiste una linea chiara tra simulazione e comprensione, tra imitazione e coscienza. Forse la coscienza, suggerisce Roncaglia, non è un requisito assoluto per produrre cultura, linguaggio, bellezza. Forse l’IA ci costringe a riconoscere che la mente umana stessa è un insieme di euristiche, previsioni e pattern ricorrenti. L’angoscia che questo genera è proporzionale alla portata della rivelazione.
Sul piano più etico e politico, il testo vibra di un’urgenza sottile. L’IA non è neutrale, e il suo sviluppo non può essere lasciato alla sola logica del mercato. Roncaglia ricorda che ogni algoritmo porta con sé una filosofia implicita, un sistema di valori incorporato nelle sue scelte di design. Parlare di “allineamento” o di “controllo” non significa solo proteggersi da disastri, ma costruire un nuovo contratto sociale tra umani e sistemi autonomi. La tecnologia, come sempre, amplifica ciò che siamo. Se l’IA diventa tossica, è perché la nostra cultura lo è già.
Leggendo, si ha la sensazione di ascoltare un professore che non predica ma accompagna. Roncaglia non impone visioni, ma costruisce mappe. Insegna che la filosofia dell’IA non è un lusso accademico, ma una necessità pratica: l’unico modo per non diventare vittime del nostro stesso linguaggio algoritmico. Ogni pagina invita a rallentare, a interrogarsi non su cosa farà la prossima versione di ChatGPT, ma su cosa significhi, per noi, delegare la parola al calcolo.
Alla fine del libro rimane una sensazione quasi inquietante, ma produttiva: l’intelligenza artificiale non è tanto un fenomeno tecnologico quanto un esperimento spirituale collettivo. È la nostra nuova teologia laica, con i suoi profeti, i suoi dogmi e le sue eresie. Ci promette il paradiso dell’efficienza e l’inferno della disinformazione, mentre noi oscilliamo tra fede e diffidenza. In questo teatro postumano, Roncaglia ci invita a restare lucidi, a mantenere la capacità di stupirci senza inginocchiarci.
Filosofia dell’intelligenza artificiale non spiega solo la macchina: spiega noi, di fronte alla macchina. Non ci offre risposte, ma ci restituisce la dignità della domanda. E in tempi in cui la conoscenza viene generata in massa da algoritmi predittivi, ricordare il valore di una domanda autentica è forse l’atto più umano rimasto.