
Donald Trump ha sempre avuto un debole per la guerra verbale, ma questa volta la metafora è diventata geopolitica: ha definito i Democratici “kamikaze”, pronti a distruggere il Paese pur di non cedere politicamente. Una frase che sembra uscita più da un manuale di guerra psicologica che da un briefing alla Casa Bianca, ma che fotografa bene la tensione attuale a Washington. Lo shutdown USA è entrato nella storia come il più lungo di sempre, superando il precedente record di 35 giorni fissato dallo stesso Trump nel suo primo mandato. Una chiusura del governo che sa di déjà vu e che lascia sul campo 1,4 milioni di lavoratori federali, molti senza stipendio e altri obbligati a lavorare comunque, come se la fedeltà alla nazione potesse pagare l’affitto.
Il cuore della crisi è sempre lo stesso: il Congresso non ha approvato i fondi necessari oltre la fatidica data del 30 settembre. Da allora, i servizi pubblici americani si sono spenti uno dopo l’altro come luci di un grattacielo durante un blackout. Alcune corti federali hanno tirato fuori risorse d’emergenza per restare aperte, mentre altre hanno iniziato a rallentare i procedimenti. La tensione cresce e i programmi di welfare come lo SNAP, l’assistenza alimentare per milioni di famiglie, rischiano di svanire. Negli Stati Uniti, dove il supermercato è una religione, vedere un programma che garantisce il cibo sospeso è più che un problema amministrativo, è un simbolo politico.
Trump, di ritorno dal Giappone, ha evocato i kamikaze come esempio di devozione cieca. “Penso che questi ragazzi siano kamikaze”, ha detto dei Democratici. “Distruggeranno il Paese se necessario.” Una frase che suona come una caricatura della retorica trumpiana, ma che riflette una realtà: lo scontro politico americano non è più tra due partiti, ma tra due logiche incompatibili di potere. Il presidente repubblicano punta sulla minaccia e sull’escalation, i Democratici rispondono con l’ostruzionismo strategico, convinti che la pressione dei cittadini spingerà la Casa Bianca a cedere.
Nel frattempo, gli aeroporti cominciano a trasformarsi in zone di guerra. Il segretario ai Trasporti Sean Duffy ha avvertito che se la crisi durerà ancora, il caos nei cieli sarà inevitabile. Mancano i controllori di volo, i funzionari TSA lavorano senza stipendio e i check-in si trasformano in maratone di nervi. È lo stesso copione che portò Trump, nel 2019, a porre fine al precedente shutdown. Ma questa volta il copione è più spietato. Il rischio di un collasso operativo durante il weekend del Thanksgiving, quando oltre cinque milioni di americani voleranno per le vacanze, non è più un’ipotesi ma una certezza matematica.
Il problema, però, non è logistico. È politico. I Democratici rifiutano di negoziare finché non sarà assicurata l’estensione dei sussidi sanitari, le agevolazioni che permettono a milioni di cittadini di avere un’assicurazione accessibile. I Repubblicani, in perfetto stile tattico, rispondono che se ne parlerà solo dopo la riapertura del governo. Risultato: un Paese sospeso tra l’ideologia e la burocrazia, con un presidente che promette licenziamenti di massa e un Congresso che finge di avere il controllo.
Trump sa bene che il tempo non gioca a suo favore. Le elezioni si avvicinano, e il suo marchio politico è sempre stato costruito sulla forza e sull’azione, non sull’immobilismo. Per questo ha rilanciato una vecchia ossessione: l’abolizione del filibuster, la regola del Senato che richiede 60 voti su 100 per approvare la maggior parte delle leggi. Con una maggioranza sottile, Trump vede nel filibuster il vero nemico interno, più temibile dei Democratici stessi. “Dobbiamo riaprire il Paese”, ha detto. “E il modo per farlo è eliminare il filibuster.” Parole che suonano come una dichiarazione di guerra alle istituzioni, ma che rivelano una strategia precisa: cambiare le regole del gioco per mantenere il controllo.
I Democratici, dal canto loro, sanno che più dura lo shutdown, più cresce la frustrazione dell’opinione pubblica. L’idea che un governo non riesca a garantire stipendi, voli e cibo colpisce al cuore la narrativa americana dell’efficienza. E mentre Trump parla di kamikaze, molti cittadini iniziano a vedere in lui il pilota che ha puntato il proprio aereo contro la torre del sistema politico. Ma la verità è più complessa. Entrambe le parti giocano con il fuoco, perché entrambe temono di apparire deboli. Nessuno vuole essere il primo a cedere, anche a costo di sacrificare il Paese sull’altare del consenso.
Negli Stati Uniti, la politica è spettacolo, ma è anche un laboratorio di potere. Ogni crisi, ogni shutdown, è un test di resistenza delle istituzioni. Trump lo sa. Ogni giorno di chiusura serve a misurare chi ha la pelle più dura. Il rischio è che nel frattempo il Paese reale — quello dei lavoratori senza paga, degli aeroporti bloccati, delle famiglie senza SNAP — smetta di credere nel gioco. È questo il vero punto di rottura: non la durata del blocco, ma la perdita di fiducia nel sistema.
Ciò che rende questa crisi particolarmente inquietante è il suo valore simbolico. Non è una battaglia di bilancio, è una guerra di modelli. Da una parte, un populismo autoritario che sogna di riscrivere le regole per rendere il potere più rapido e diretto. Dall’altra, una resistenza istituzionale che si nasconde dietro il formalismo democratico per non perdere terreno. Entrambi si dichiarano paladini del popolo, ma in realtà giocano una partita di sopravvivenza politica, dove il cittadino medio è solo una pedina sacrificabile.
Forse è questo il motivo per cui Trump parla di kamikaze. È un modo di proiettare sull’altro la propria ossessione. L’America è diventata un Paese di piloti che volano a vista, in un cielo senza torri di controllo e con i radar spenti. Il shutdown USA non è solo un blocco amministrativo, è una parabola sulla fragilità del potere quando si confonde la leadership con la vendetta. E come ogni parabola americana, finirà non con un compromesso, ma con un colpo di scena, magari in diretta televisiva, con Trump che firma la riapertura del governo e rivendica la vittoria su quelli che lui stesso ha chiamato “i kamikaze democratici”.