Allo European Banking Congress di Francoforte, Christine Lagarde pur non usando toni apocalittici ha inviato un messaggio molto chiaro: l’Europa è vulnerabile. Ma noi questo già lo sapevamo. L’UE è vulnerabile non solo per colpa dei capricci geopolitici mondiali, tra dazi americani, guerra in Ucraina e concorrenza cinese, ma anche, se non soprattutto, per un fattore domestico: un mercato interno ingessato, lento e incapace di liberare il potenziale nei settori chiave del futuro come tecnologia digitale, intelligenza artificiale e mercati dei capitali.

Sappiamo bene qual è lo scenario: quello di una maratona (perché il percorso è lungo e insidioso) verso la prossima rivoluzione industriale. Ma, mentre noi in Europa siamo ancora i blocchi di partenza discutendo di quale sia la migliore strategia per affrontare questa sfida, Stati Uniti e Cina sono già nel bel mezzo della corsa. Allo stato attuale delle cose, pensare di riuscire a recuperare il terreno perso è semplicemente folle.

Lagarde, da parte sua, non ha fatto altro che mettere nero su bianco ciò che gli economisti e gli osservatori più attenti, sanno ormai da anni: la dipendenza energetica e di materie prime, gli shock globali crescenti, l’esposizione commerciale a dazi e tensioni internazionali e la concorrenza cinese sempre più aggressiva, stanno rendendo l’Unione Europea un gigante geoeconomico con i piedi di argilla. E poi il paradosso: l’Europa continua ad attendere che il mercato interno, nato per essere uno dei più aperti e integrati del mondo, si decida finalmente a funzionare davvero. Ma tutto questo ce lo aveva già spiegato Draghi più di un anno fa.

In uno dei passaggi più significativi, Lagarde ha ricordato che i servizi rappresentano ormai tre quarti dell’economia europea, ma gli scambi di servizi all’interno dell’UE equivalgono solo a un sesto del PIL europeo, praticamente la stessa quota degli scambi con il resto del mondo.

Una statistica che, tradotta in termini non accademici, suona più o meno così: l’Europa è riuscita nell’impresa di trattare i suoi stessi Stati membri quasi come Paesi esteri. Un risultato non esattamente brillante per un continente che “ambirebbe” alla leadership nelle tecnologie più avanzate (ma questo è un film tutto franco-tedesco).

A peggiorare il quadro, sottolinea Lagarde, c’è il fatto che le barriere interne non si sono ridotte più rapidamente di quelle che le aziende extraeuropee hanno dovuto affrontare. Mentre il mondo si integrava e si buttava a capofitto nella competzione, il vecchio continente è rimasto alla finestra, aspettando che il treno dell’innovazione si fermasse da solo per farlo salire. (Spoiler: non si è fermato!)

La presidente della BCE ha però proposto una ricetta sorprendentemente semplice: basterebbe che tutti gli Stati membri allineassero le loro barriere commerciali interne al livello dei Paesi Bassi.

Il risultato?

Meno 8 punti percentuali di barriere interne sulle merci e meno 9 sui servizi, con un incremento degli scambi tale da compensare per intero l’impatto dei dazi statunitensi sulla crescita europea.

E per chi teme rivoluzioni, buone notizie: “Non servono cambiamenti radicali”, ha precisato Lagarde. In altre parole, compensare uno shock commerciale da superpotenza globale richiederebbe agli europei… solo un po’ di buona volontà. Una premessa che, detta così, ha dell’incredibile.

Ancora più curioso è il fatto che basterebbe compiere appena un quarto di questo sforzo per neutralizzare l’impatto dei dazi USA. L’Europa insomma, dice Lagarde, non deve scalare l’Everest: deve solo iniziare a camminare.

Quel che è evidente è che l’Europa è rimasta indietro nei settori che guideranno la crescita del futuro, come intelligenza artificiale, cloud, semiconduttori e digitalizzazione. E non solo nel produrli, anche nel finanziarli.

I mercati dei capitali europei (da sempre più frammentati rispetto a quelli americani), non riescono a sostenere scale-up tecnologici di portata globale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mentre negli Usa basta un’idea convincente per attrarre miliardi, in Europa serve un dossier di 200 pagine, un business plan perfettamente allineato alle normative di 27 Paesi e qualche santo in paradiso.

Lagarde si dice ottimista, perchè l’Europa ha resilienza, forza e potenziale. Siamo d’accordo. Ma solo se decidiamo di usare queste caratteristiche. Perché l’innovazione non è un dono naturale: è il frutto di riforme, integrazione e, soprattutto, di coraggio.

La fotografia attuale la conosciamo: il mondo corre, l’Europa riflette.

Per carità, va bene riflettere, purché poi ci si muova. Perché è arrivato il momento per l’Europa di allacciarsi le scarpe e iniziare a correre. E occorre farlo in fretta: chi è davanti a noi, non si fermerà certo ad aspettare, ne si lascerà rallentare dalla nostra smania di regolamentazione.