L’intelligenza artificiale non è più un’ospite di passaggio nella nostra quotidianità. Tanto meno lo è nelle aule universitarie. È diventata, anzi, una coinquilina fissa, spesso invisibile e a volte anche ingombrante. Oggi qualsiasi studente può generare in pochi secondi una tesi decente, un codice funzionante o un’analisi statistica sofisticata. Il risultato è quello che si rischia di scambiare velocità per profondità e omogeneità per qualità. Ne parlavo proprio giorni fa all’interno dell’Accademia nella quale insegno digital marketing ai ragazzi del 2° anno, nati nel 2005. Il vero pericolo, cercavo di spiegare, non è la tecnologia in sé, ma la tentazione di usarla come scorciatoia per il pensiero: un conformismo digitale che premia l’output medio e mette in secondo piano la deviazione creativa dell’essere umano.
È in questo scenario che matura una riflessione urgente: le università devono smettere di essere semplici consumatrici di algoritmi e trasformarsi in laboratori di resistenza intellettuale. Devono insegnare non solo a usare l’AI, ma a metterla in discussione, a smontarla, a superarla. Solo così l’Italia potrà evitare di ritrovarsi con laureati perfettamente addestrati a ripetere il già noto, invece che a inventare il nuovo.
A dare voce a questa preoccupazione, con la consueta lucidità, è stato proprio oggi Vittorio Colao sulle pagine del Corriere della Sera. Nel suo intervento intitolato “Università, oltre il gregge dell’AI”, l’ex ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale ha fotografato con precisione il bivio davanti al quale si trova il sistema universitario italiano: abbracciare l’AI come alleata del pensiero divergente o ridursi a gregge ben incolonnato nella grande prateria dell’algoritmo globale. Partendo da questa analisi, e ampliandola con dati economici e casi internazionali, proviamo qui a ragionare assieme sul perché questa non sia solo una battaglia culturale, ma una partita decisiva per la competitività del Paese nei prossimi decenni.
L’Allarme: dall’evoluzione tecnologica alla crisi del pensiero critico
Partiamo da una premessa condivisa da economisti e innovatori: l’AI sta rivoluzionando il panorama educativo e professionale. In Italia, dove solo il 20% delle università ha integrato pienamente piattaforme AI nei curricula (dati OCSE 2025), il ritardo è evidente. Basta frequentare, da docente o studente, una qualsiasi università italiana per rendersene conto. Qual è il rischio? Quello che gli atenei italiani siano relegati a meri consumatori di tool generativi, come ChatGPT o Grok, senza alternative e senza essere parte del processo di innovazione.
Tornando a Colao, da cui prende spunto questa riflessione su AI e Università, il cuore del suo appello è il contrasto tra “pensiero conforme” e “pensiero divergente”. In un mondo dominato da algoritmi che premiano l’efficienza lineare (pensiamo ai recommendation engine di Google o alle simulazioni predittive di IBM Watson) le università, secondo Colao, devono coltivare la creatività umana come antidoto. E cita, a tale proposito, l’esempio di Harvard e Stanford, dove programmi ibridi AI+umanistico (come il “AI Ethics Lab” di Stanford) hanno prodotto brevetti eticamente sostenibili, aumentando del 35% l’impatto innovativo misurato in citazioni scientifiche (fonte: Nature Index 2025). In Italia, invece, il 60% degli studenti STEM riporta un uso passivo dell’AI, con rischi di “conformismo digitale” che Colao equipara a un “gregge” privo di spina dorsale critica.
Questa prospettiva non è solo accademica: ha implicazioni economiche dirette. Secondo un report McKinsey del 2025, l’AI potrebbe automatizzare il 45% delle attività cognitive entro il 2030, ma solo se non investiamo in “critical thinking” potremo generare valore aggiunto. E questo Colao lo sa bene: da CEO di Vodafone a guida della task force per la transizione digitale nel governo Draghi, ha visto come l’innovazione non sia solo tecnologica, ma culturale. Senza università che formino “pensatori divergenti”, l’Italia rischia di esportare solo dati grezzi, non idee “disruptive”.

Sviluppare il pensiero creativo: le strategie per un’AI Umanistica
Prendendo le mosse dal testo di Colao, è chiaro che la soluzione passa per un’integrazione consapevole. Immaginiamo curricula che non sovrappongano AI e umanità, ma le intreccino, lavorando altresì sulle capacità di progettare AI che amplifichino, e non soppiantino, la creatività umana. Dal punto di vista economico, questo approccio è un investimento ad alto rendimento. L’Unione Europea, con il suo AI Act del 2024, ha stanziato 1,5 miliardi per “Human-Centric AI” nelle università: l’Italia, con i suoi poli di eccellenza universitaria potrebbe catturare il 15% di questi fondi se adotta modelli ibridi. Ma serve farlo in fretta. Il ritardo italiano costa 10 miliardi annui in opportunità perse (stime Confindustria Digitale 2025).
Il ruolo delle Università nel Futuro Digitale
Il vero colpo di scena nel ragionamento di Colao è l’invito a “allargare oltre il conformismo digitale”. In un contesto dove l’AI amplifica le echo chamber, basti pensare ai social media polarizzati, le università devono essere “incubatori di dissenso costruttivo”. Questo significa negoziare partnership con le big techper dataset etici o per sviluppare sistemi open-source AI per l’educazione inclusiva.
Economicamente, è una leva per la crescita: il settore AI in Italia vale già 15 miliardi (stime Politecnico Milano, 2025), ma potrebbe triplicare con un ecosistema universitario forte, ma occorre essere necessariamente parte di questa transizione.

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Fonti: questo articolo di commento integra l’analisi di Vittorio Colao (Corriere della Sera, 23/11/2025) su AI e università italiane con dati OCSE 2025, McKinsey Global Institute, Nature Index, Confindustria Digitale e Osservatorio Digitale del Politecnico di Milano.