La narrativa che vorrebbe il rally azionario AI in Cina come l’ennesima illusione collettiva suona sempre più come un riflesso pavloviano di un Occidente abituato a confondere la propria tecnologia con il mondo intero. La realtà finanziaria mostra che la crescita trainata dall’intelligenza artificiale in Cina ha radici meno speculative e più industriali, un paradosso che dovrebbe suscitare imbarazzo in chi continua a evocare la parola “bolla” ogni volta che vede un grafico in salita. Una frase che, a quanto pare, fa tremare i polsi a chi si aspetta che solo la Silicon Valley possa permettersi il lusso della supremazia tecnologica.

La logica dietro questa ascesa è sorprendentemente semplice e allo stesso tempo perturbante per gli investitori che hanno scommesso contro la capacità della Cina di competere in un settore che sembrava blindato dagli Stati Uniti. Le aziende cinesi non stanno versando fiumi di capitale in GPU e data center senza un piano. Stanno facendo quello che i mercati, in tempi normali, adorano: investire dove si monetizza prima. La Cina sta puntando sulle applicazioni dell’AI per accelerare i ricavi in modo più rapido e più prevedibile. Una strategia meno appariscente della corsa americana alla potenza computazionale, ma molto più digeribile per chi crede che un business debba prima guadagnare e poi scalare. È curioso notare che proprio la prudenza cinese diventa oggi la spiegazione per cui il rally sembra così solido. Un analista ironizzerebbe dicendo che la Cina sta facendo AI come si farebbe ingegneria industriale: meno glamour e più ROI.

La sproporzione nelle valutazioni tra le big tech statunitensi e quelle cinesi offre uno squarcio illuminante sulla psicologia degli investitori. La capitalizzazione combinata dei primi dieci colossi tech della Cina si ferma a due virgola cinque trilioni di dollari, mentre i loro equivalenti americani pesano venticinque trilioni. Una differenza dieci a uno che non si può ignorare e che colloca il mercato cinese in un territorio di crescita potenziale quasi imbarazzante. Il mercato azionario cinese, seconda keyword semantica, mostra multipli che farebbero la gioia di qualsiasi fondo value se solo avesse il coraggio di guardare oltre il proprio ombelico geopolitico. Il fatto che la Cina rappresenti solo il quindici per cento dell’intero universo azionario locale mentre le big USA dominano il quaranta per cento dello S&P 500 suggerisce una cosa semplice: la corsa americana è già stata prezzata, quella cinese no.

La tempistica rende il quadro ancora più intrigante. L’intero ciclo di investimento AI in Cina è indietro di circa diciotto mesi rispetto agli Stati Uniti. Una discrepanza che suona come musica nelle orecchie dei gestori attenti ai cicli di adozione tecnologica. Ciò significa che i risultati economici più consistenti devono ancora arrivare, che gli utili delle aziende cinesi sono destinati a espandersi in modo più aggressivo e che il rally non ha ancora raggiunto la fase di euforia irrazionale. Quando il ritardo diventa un vantaggio competitivo ci si accorge che i mercati non sono solo numeri ma soprattutto narrativa. Qui la narrativa è dalla parte di Pechino.

L’ossessione occidentale per l’idea di bolla spesso dimentica che la Cina pianifica dove gli altri improvvisano. Il tema AI è stato inserito con chirurgica determinazione nell’ultimo piano quinquennale, e non si tratta di una nota a margine ma di un pilastro strategico. Le pianificazioni macro cinesi hanno storicamente centrato il novanta per cento degli obiettivi, un track record che farebbe impallidire qualsiasi democrazia parlamentare alle prese con budget annuali risicati. Quello che agli occhi dei critici può sembrare dirigismo economico appare ai mercati come un sistema che riduce l’incertezza. In un’epoca in cui gli investitori soffrono di allergia cronica alle incognite, questo dettaglio assume il valore di un sedativo naturale.

La previsione degli utili offre poi una delle sorprese più sottovalutate di questo periodo. Le aziende cinesi dovrebbero crescere tra il dodici e il tredici per cento il prossimo anno, in netto recupero rispetto al timido due tre per cento previsto per quest’anno. È un’accelerazione che diventa ancora più sensata se si guarda al contributo diretto delle applicazioni di AI, terza keyword semantica che actua come motore silenzioso ma inesorabile di questa transizione. Le aziende cinesi stanno usando l’AI per ottimizzare logistica, vendite, customer service, supply chain e soprattutto per abbassare i costi operativi. In un’economia con margini sotto pressione questa efficienza non è un vantaggio ma una necessità.

La globalizzazione selettiva che molti riferiscono come sintomo del declino cinese si trasforma, osservata da vicino, in un’opportunità di espansione commerciale. Le aziende cinesi generano ancora solo il quindici per cento dei loro ricavi fuori dal mercato domestico contro il trenta per cento delle aziende americane. Questo margine di crescita internazionale è un pozzo ancora pieno. Il capitalismo globale non funziona per simpatia ma per convenienza e la tecnologia cinese, soprattutto nei segmenti AI enterprise e automazione industriale, rappresenta un modo rapido per migliorare la redditività in mercati che hanno fame di soluzioni performanti ma meno costose. Una citazione che si sente spesso nelle sale riunioni internazionali è che “la qualità conta, finché il prezzo non diventa una variabile strategica”. La Cina ha deciso di rendere il prezzo una variabile strategica.

Il flusso di capitali racconta un’altra verità scomoda per chi vede solo rischi e nessuna opportunità. Gli investitori retail cinesi stanno progressivamente abbandonando il mattone per cercare rendimenti in un mercato azionario che offre più futuro e meno debito. Il capitale istituzionale, spinto anche da vincoli regolamentari, deve allocare di più sull’onshore. Gli investitori globali meno sensibili al rumore geopolitico, che provengano dal Medio Oriente, dal Sudamerica o dall’Asia emergente, si stanno posizionando con una decisione che tradisce un certo divertito disinteresse per le paure delle piazze occidentali. Una curiosità poco menzionata è che molti di questi investitori considerano la Cina una hedge geography rispetto ai rischi strutturali degli Stati Uniti, un rovesciamento ironico dell’immaginario collettivo degli ultimi vent’anni.

Lungi dall’essere una bolla, il rally azionario AI Cina è un esperimento riuscito di monetizzazione industriale dell’intelligenza artificiale. Il mercato non sta pagando la promessa di un futuro remoto ma i primi dividendi di una strategia concentrata sulle applicazioni. La differenza tra gli Stati Uniti e la Cina non è nella capacità tecnologica ma nel modo di utilizzare quella capacità. Gli USA hanno costruito la cattedrale della computazione. La Cina ha iniziato a venderne i biglietti di ingresso. In finanza non vince chi costruisce il tempio più grande ma chi monetizza per primo la fila all’entrata.

Se il mercato occidentale preferisce continuare a definire tutto questo una bolla, il tempo farà da arbitro. I numeri, come sempre, hanno la brutta abitudine di essere meno ideologici dei commentatori.