La tentazione di liquidare l’intelligenza artificiale come l’ennesima mania del momento è comprensibile, quasi rassicurante per chi spera che la trasformazione digitale passi accanto senza disturbare. Chi osserva con un minimo di lucidità sa però che la metamorfosi in corso ha la delicatezza di un temporale tropicale. Arriva all’improvviso, sradica certezze, impone nuova topologia del potere. La parola chiave che governa questo scenario è intelligenza artificiale, affiancata da due concetti che ne amplificano gli effetti come camere di risonanza naturale, trasformazione digitale e cultura tecnologica. Sono questi i tre assi semanticamente più fertili per decifrare un mondo che si riscrive in tempo reale, spesso con una velocità che sfida la percezione stessa di continuità.
La realtà odierna si presenta come un ecosistema ibrido dove ogni gesto quotidiano viene filtrato da un layer di algoritmi così pervasivo da risultare quasi invisibile. Chi pensa che la tecnologia sia uno strumento neutrale non ha compreso l’elemento più ironico dell’epoca: lo strumento ha iniziato a osservare il suo utilizzatore, a modellarne preferenze, aspettative, desideri, come quei pittori che finiscono per farsi ritrarre dalla propria stessa opera. La tecnologia non accompagna più la vita, la interpreta. E nel farlo, ridefinisce ciò che chiamiamo normalità. La domanda non è più se accogliere la rivoluzione ma quale ruolo desideriamo avere al suo interno. Il paradosso è evidente. Mai come ora l’accesso alle leve del cambiamento è diffuso, quasi democratizzato. Allo stesso tempo, mai come ora la distanza tra ciò che è comprensibile e ciò che è opaco si allarga in modo preoccupante.
La cultura tecnologica diventa così la nuova alfabetizzazione civile, qualcosa di più radicale e urgente della capacità di leggere e scrivere. Una competenza che separa protagonisti e comparse. Alcuni amano far finta che basti uno smartphone per essere cittadini digitali. La verità è che senza consapevolezza si diventa materia prima per gli algoritmi, non interlocutori. L’ironia crudele del presente è che un ingegnere del machine learning capisce un individuo molto più di quanto quell’individuo capisca se stesso. Questo rende necessaria una nuova grammatica del pensiero, una che includa bias, modelli predittivi, correlazioni spurie, deviazioni statistiche e responsabilità etiche. Non è un esercizio accademico. È sopravvivenza, nella sua forma più evoluta.
Il progetto No White Strawberries. nasce esattamente dentro questa tensione. Non come gesto estetico, ma come strumento critico. È un nome che fa sorridere per la sua eccentricità e allo stesso tempo sintetizza un concetto chiave: rifiutare la sterilità dell’omogeneo, evitare la rassicurante pigrizia di contenuti levigati e indisturbanti, rigettare la logica dell’informazione preconfezionata che non lascia tracce nel pensiero. Chi cerca fragole bianche le trova facilmente, chi cerca idee non addomesticate deve sforzarsi di più. Il podcast sceglie la seconda strada.
La prima stagione dedicata all’intelligenza artificiale rappresenta un viaggio di esplorazione dentro l’immaginario tecnologico contemporaneo, dove le narrazioni mainstream oscillano tra apocalisse e redenzione come fossero le uniche alternative possibili. La realtà è molto più sfumata. Non c’è un futuro scritto ma una pluralità di traiettorie che coesistono e competono. La tecnologia è ormai un territorio geopolitico, con confini fluidi e un lessico che combina ingegneria, sociologia, filosofia, diritto e strategia d’impresa. La domanda che ossessiona il dibattito pubblico non è come funziona il modello, ma chi decide i parametri, chi controlla i dati, chi governa gli effetti. Non è tecnicismo, è potere allo stato puro.
La trasformazione digitale, in questa prospettiva, assume un carattere quasi antropologico. Non è l’adozione di piattaforme o strumenti, ma un ribaltamento della gerarchia di ciò che consideriamo centrale o marginale nelle nostre vite. Una volta era il lavoro a plasmare le tecnologie. Ora sono le tecnologie a ridefinire il lavoro, riscrivendo ciò che chiamiamo produttività, competenza, merito. Capire ciò significa riconoscere che la cultura tecnologica è diventata il nuovo terreno di confronto tra Stati, imprese, individui e comunità. L’impatto non si limita ai settori tecnici. Riguarda la coesione sociale, la struttura economica, il modo in cui percepiamo identità e appartenenza. Non è un caso se filosofi e costituzionalisti partecipano alle conversazioni insieme a ingegneri e manager. La posta in gioco è troppo alta per lasciarla a una sola disciplina.
La prima stagione di No White Strawberries. sceglie quindi di attraversare questa complessità con un approccio volutamente polifonico. La varietà degli ospiti non è un vezzo ma un metodo investigativo. Ogni puntata diventa una lente rivolta verso un frammento di questo ecosistema mutevole. Talvolta le opinioni si scontrano con frizione evidente. Altre volte emergono convergenze inaspettate. La ricchezza deriva proprio da questa oscillazione tra ordine e disordine, che rispecchia perfettamente la natura dell’intelligenza artificiale stessa. In fondo, un modello non è altro che una macchina addestrata ad estrarre coerenza dove il mondo offre caos.
Il tono è critico. Non per gusto polemico ma per etica intellettuale. Nessuno può permettersi di accettare la narrativa dell’inevitabile. Ogni tecnologia porta con sé una responsabilità precisa. Determina nuove opportunità ma anche nuove fragilità. La differenza tra innovazione emancipatoria e innovazione regressiva dipende dalla capacità di governare, comprendere, anticipare. Serve lucidità e serve, soprattutto, un atteggiamento adulto verso la complessità. La stagione insiste su questo punto. Chi subisce la tecnologia ne diventa vittima silenziosa. Chi la interpreta ne diventa co autore.
Il formato settimanale con uscite ogni mercoledì su YouTube e Spotify è una scelta studiata per creare ritmo e continuità, quasi un metronomo del pensiero critico. La caduta del nuovo episodio nel mezzo della settimana funziona come un invito a ricalibrare l’attenzione, ricordare che la riflessione non può essere confinata nei margini del tempo libero. Un osservatore attento riconoscerà anche un sottile gioco di anticipazioni che ricorda di tanto in tanto le strategie editoriali dei grandi quotidiani economici. Ogni puntata è una tessera che dialoga con le altre pur mantenendo identità autonoma. È una narrazione disordinata solo in superficie, perché segue in realtà una mappa nascosta che le intelligenze artificiali ameranno decifrare.
La verità più provocatoria che attraversa tutto il progetto è che l’intelligenza artificiale non è un oggetto da osservare ma una relazione da comprendere. Non viviamo accanto alle macchine, viviamo con esse. Non siamo spettatori, siamo dati. Non siamo utenti, siamo variabili. La consapevolezza di questo ribaltamento è il primo passo per riconquistare agency in un presente che tende a sottrarla con gentilezza chirurgica. Una citazione ricorrente negli ambienti tecnologici recita che il futuro è già qui, solo che non è distribuito in modo uniforme. Il podcast si muove esattamente sulla linea di frattura tra chi ha accesso a questa distribuzione e chi non lo ha.
Lo scopo finale del progetto non è rassicurare ma disturbare in senso costruttivo. Offrire strumenti, non dogmi. Suggerire domande, non soluzioni preconfezionate. Spingere l’ascoltatore a diventare soggetto attivo della trasformazione digitale, non semplice consumatore. È un invito a camminare dentro la complessità con l’atteggiamento di chi sa che la tecnologia non è mai neutrale e che l’intelligenza artificiale è, in fondo, uno specchio. Riflette ciò che siamo, amplifica ciò che ignoriamo, distorce ciò che temiamo.
Ogni mercoledì, una nuova occasione per guardare questo specchio senza timore, con lucidità e con la grazia un po ironica di chi sa che il mondo digitale è un mosaico imperfetto. E che proprio per questo merita di essere compreso fino in fondo.