Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Milano, Mario Draghi non ha fatto il classico discorso celebrativo da cerimonia universitaria con buffet finale. Ha tenuto, piuttosto, una lezione di geopolitica tecnologica mascherata da prolusione accademica. E ha messo l’Europa davanti allo specchio: e quello che si vede riflesso non è esattamente il volto di un continente all’avanguardia sull’Intelligenza Artificiale.
Mario Draghi ha usato numeri, storia economica e una filosofia molto concreta per mandare un messaggio semplice: senza una vera strategia su AI, innovazione e produttività, l’Europa rischia una lunga, elegante e costosissima stagnazione. Un museo a cielo aperto, brillante nel patrimonio culturale, molto meno nel futuro industriale.
Secondo Draghi, l’Intelligenza Artificiale rappresenta una possibilità storica di rilancio economico. Non una delle tante, ma quella decisiva. Le stime sono chiare: se l’adozione dell’AI in Europa seguisse una traiettoria simile a quella del digitale negli Stati Uniti, la crescita della produttività potrebbe aumentare di circa lo 0,8% all’anno. Se invece il cambiamento fosse paragonabile all’impatto dell’elettrificazione negli anni Venti del Novecento, si arriverebbe a un incremento superiore all’1%, addirittura vicino all’1,3%. In altre parole: l’accelerazione economica più significativa vista in Europa da decenni.
Un’occasione gigantesca, ma non automatica. Ed è qui che il discorso diventa più politico che tecnologico. Draghi non usa giri di parole quando confronta l’Europa con Stati Uniti e Cina: lo scorso anno gli americani hanno prodotto circa 40 grandi modelli di intelligenza artificiale, la Cina 15, l’Unione Europea appena 3. Non una differenza. Un abisso.
Il motivo non è che gli scienziati europei siano meno bravi. È che il sistema Europeo investe meno, rischia meno, integra meno e complica di più. La rivoluzione dell’AI, ha detto Draghi, sta riproducendo esattamente lo schema che ha portato al divario di produttività con gli Stati Uniti: il settore tecnologico corre, l’Europa cammina. E quando cammini mentre il resto del mondo corre, quello che perdi non è solo terreno, ma rilevanza strategica.
Il quadro si allarga oltre l’IA. Draghi cita biotecnologie, materiali avanzati, fusione nucleare. Le grandi innovazioni e i capitali privati, oggi, si muovono altrove. E qui arriva la frase che pesa come un macigno: se l’Unione Europea dovesse mantenere il tasso di crescita della produttività dell’ultimo decennio, tra 25 anni la sua economia avrebbe più o meno la stessa dimensione di oggi. Nessuna catastrofe improvvisa. Nessuna crisi spettacolare. Solo un lunghissimo rallentamento collettivo.
Poi c’è il capitolo lavoro, quello che preoccupa di più l’opinione pubblica. Draghi smorza la retorica apocalittica sull’“IA che ruba il lavoro” ma non la banalizza. Ricorda che le rivoluzioni tecnologiche del passato non hanno prodotto disoccupazione permanente, bensì nuove professioni, nuovi settori, nuova domanda. Ma la transizione è sempre dolorosa, asimmetrica e politicamente esplosiva.
L’Intelligenza Artificiale non colpirà tutti allo stesso modo. Alcune mansioni spariranno, altre diventeranno più produttive e alcune imprese accumuleranno vantaggi enormi, in un modello che ricorda più “il vincitore prende quasi tutto” che una redistribuzione equa dei benefici. E qui Draghi lancia la palla alla politica: l’impatto sociale dell’AI non dipende solo dalla tecnologia, ma da come i governi decidono di governarla.
Regole, mercato del lavoro, costo dell’energia, formazione e connettività digitale non sono variabili secondarie, ma il vero “software” del progresso. E soprattutto, sottolinea Draghi, il problema non è solo “se” creare ricchezza con l’AI, ma “come” distribuirla. Senza politiche di accompagnamento, il rischio non è l’automazione, ma la disuguaglianza.
Centrale nel discorso è anche la questione regolatoria. Qui Draghi è chirurgico: l’Europa soffre di una forma di “overcautela normativa”. Abbiamo trasformato ipotesi iniziali in dogmi di legge, rendendo i regolamenti difficili da aggiornare in un contesto che cambia ogni sei mesi. Nel frattempo, l’AI evolve. E la politica resta indietro, cercando di imbrigliare una tecnologia ancora in movimento con regole pensate per un mondo statico.
Draghi non propone il far west digitale alla Silicon Valley. Ma neppure l’iperprotezione paralizzante. Bloccare una tecnologia prima di capirne il potenziale è un errore grave tanto quanto lasciarla diffondersi senza controllo. Il problema europeo, secondo l’ex presidente della BCE, non è tanto la prudenza, quanto l’incapacità di gestire l’incertezza.
E la sua conclusione è forse la più politica di tutte: l’Intelligenza Artificiale non salverà il mondo da sola, ma può migliorarne radicalmente lo stato di salute. Quanto lo farà dipende dalle scelte di oggi. Dalle politiche di investimento, dalla qualità della formazione, dalla lungimiranza delle regole.
Il discorso al Politecnico non è stato una celebrazione dell’AI, ma un avviso ai naviganti: l’Europa può usare l’Intelligenza Artificiale come motore di rinascita o come occasione mancata. E la differenza non la farà un algoritmo. La farà la politica.
