C’è stato un tempo in cui fermare una fabbrica automobilistica significava avere a che fare con scioperi, domanda in calo o qualche linea di montaggio obsoleta. Oggi basta che manchi un chip, grande quanto un’unghia ma potente come una leva geopolitica, e anche un colosso come Honda è costretto a spegnere le luci degli impianti. È quello che sta accadendo tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio in Giappone e tre in Cina, dove la casa automobilistica giapponese ha annunciato una sospensione temporanea della produzione di qualche giorno a causa della persistente carenza di semiconduttori. Un dettaglio tecnico solo in apparenza, che in realtà racconta molto dello stato dell’industria globale.
Honda fermerà per cinque giorni tre impianti produttivi in Cina, gestiti in joint venture con un partner locale, mentre in patria alcune fabbriche resteranno inattive il 5 e 6 gennaio, con una ripartenza a ranghi ridotti nei giorni successivi. Non è una novità isolata, ma l’ennesimo capitolo di una saga industriale che va avanti da mesi e che ha già colpito stabilimenti in Messico, Stati Uniti e Canada. La crisi dei chip, insomma, non conosce fusi orari e non rispetta i confini nazionali.
Il punto interessante è che non siamo di fronte a un semplice problema di domanda e offerta. Dietro la scarsità di semiconduttori che sta mettendo in difficoltà Honda c’è un intreccio sempre più stretto tra industria, tecnologia e geopolitica. La miccia si è accesa in Europa, nei Paesi Bassi, quando il governo dell’Aia è intervenuto su Nexperia, una delle aziende leader nei semiconduttori, controllata dal gruppo cinese Wingtech Technology. Una decisione presa anche sotto la pressione degli Stati Uniti, preoccupati di come alcune tecnologie chiave possano finire in mani considerate sensibili. Da lì l’effetto domino ha iniziato a propagarsi lungo la catena globale del valore, fino ad arrivare alle linee di assemblaggio di automobili in Asia e nelle Americhe.
Il risultato è che un settore come quello automotive, che negli ultimi anni ha trasformato l’auto in un computer su ruote, si scopre improvvisamente vulnerabile. Ogni veicolo moderno contiene centinaia di semiconduttori, fondamentali per la gestione del motore, la sicurezza, l’infotainment e ormai anche per le funzioni di guida assistita. Senza chip non si produce, e senza produzione le previsioni finanziarie iniziano a scricchiolare. Honda lo ha messo nero su bianco nel suo outlook di novembre, stimando una perdita operativa di circa 150 miliardi di yen per l’esercizio fiscale che si chiuderà a marzo 2026, pari a oltre 800 milioni di euro. Una cifra che potrebbe crescere ulteriormente se la situazione delle forniture non dovesse migliorare.
Quello che colpisce è come una crisi apparentemente tecnica stia rimodellando i piani industriali di uno dei Paesi simbolo della manifattura avanzata. Il Giappone, che ha costruito la propria forza economica sull’efficienza produttiva e sulla qualità industriale, si trova oggi a fare i conti con una dipendenza strutturale da filiere globali sempre più fragili e politicamente condizionate. La carenza di chip non è più un incidente di percorso, ma un fattore strutturale che costringe le aziende a ripensare approvvigionamenti, scorte e persino strategie di localizzazione produttiva.
C’è anche un’ironia sottile in tutto questo. Mentre l’industria automobilistica corre verso l’elettrico, il software e l’intelligenza artificiale, a fermare le catene di montaggio non è una tecnologia futuristica, ma l’assenza di componenti che dovrebbero essere il simbolo della modernità. Il silicio, materiale base dell’economia digitale, diventa così il nuovo arbitro dei calendari industriali, decidendo quando una fabbrica lavora e quando resta ferma.
Da questo punto di vista, la vicenda Honda è molto più di una notizia di cronaca industriale. È un segnale chiaro di come la crisi dei semiconduttori stia entrando in una fase più profonda e strutturale, dove le decisioni politiche pesano quanto quelle industriali e dove la resilienza delle filiere diventa un vantaggio competitivo decisivo. Per il Giappone, come per il resto del mondo, la lezione è evidente. Nell’economia dei chip non esistono più pause tecniche. Solo fermate forzate.