Brillante, arrogante e con quel tocco di inevitabile superiorità che solo la Silicon Valley sa mettere in scena, Google DeepMind ha deciso che per capire il futuro dell’intelligenza artificiale bisogna scavare nel passato. Non quello recente, fatto di Big Data e algoritmi distribuiti, ma quello delle iscrizioni latine scolpite su pietra due millenni fa. Il nuovo modello AI, battezzato con un nome tanto altisonante quanto ambizioso, Aeneas DeepMind, promette di rivoluzionare la comprensione dei testi antichi. Qualcuno direbbe che è un vezzo da accademici, ma i numeri raccontano un’altra storia. Perché quando un colosso da miliardi di dollari investe per capire se l’autobiografia di Augusto fu incisa tra il 10 e il 20 d.C., il punto non è l’archeologia. Il punto è il controllo del linguaggio, e con esso, della conoscenza.
Chi conosce l’archeologia digitale sa quanto sia frustrante ricostruire contesti storici da frammenti di iscrizioni consumate dal tempo. Le università hanno speso decenni, anzi secoli, a ipotizzare date, attribuzioni, varianti linguistiche. Aeneas DeepMind ha fatto lo stesso in settimane, analizzando migliaia di testi latini e trovando correlazioni che un occhio umano non vedrebbe in una vita intera. Il suo algoritmo lavora su similarità semantiche, traccia stili linguistici, ricostruisce contesti culturali e li allinea con precisione quasi maniacale. Un professore di filologia classica potrebbe offendersi, ma è difficile non ammettere che l’AI qui gioca in un campionato diverso.
Ciò che rende Aeneas più pericoloso (e affascinante) è la sua adattabilità. Google DeepMind assicura che il modello può essere riaddestrato su altri alfabeti, altre lingue e perfino su supporti diversi dal solito papiro o pietra. Tradotto: le tavolette sumere, i rotoli sanscriti e, perché no, le scritture etrusche potrebbero essere la prossima frontiera. Se questo non è il preludio di un monopolio della conoscenza storica, non so cosa lo sia. E la comunità accademica? Divisa tra entusiasmo e terrore. Perché quando un algoritmo privato inizia a riscrivere la cronologia degli imperatori romani, il rischio è che tra vent’anni la storia ufficiale venga filtrata da un dataset proprietario, ottimizzato per i server di Mountain View.
Non è la prima volta che l’intelligenza artificiale per testi antichi cerca di rubare la scena ai filologi. Ma qui siamo oltre l’analisi ottica delle lettere scolpite o i soliti riconoscimenti OCR da laboratorio. Aeneas lavora su un piano diverso, costruendo reti di correlazioni tra fonti storiche, incrociando varianti linguistiche e attribuendo probabilità temporali con una precisione che sa più di finanza quantitativa che di archeologia. Se vi ricorda l’AI usata per prevedere i mercati azionari, non è un caso. La logica è la stessa: trovare pattern dove l’occhio umano vede solo caos.
Ironico pensare che l’intelligenza artificiale, strumento supremo del futuro, debba fare gavetta tra le rovine dell’antica Roma. Eppure, in termini di branding, è un colpo geniale. Il nome Aeneas non è un caso: un eroe troiano che fonda Roma e diventa simbolo di rinascita. DeepMind ci sta dicendo, con la solita sottile arroganza, che sta rifondando la nostra conoscenza del passato. E il mercato ci crede, perché dietro questa archeologia digitale si intravede un business ben più moderno. Non servono molti sforzi per immaginare Aeneas applicato alla decrittazione di testi legali antichi, alla ricostruzione di archivi medievali o, perché no, all’analisi predittiva dei contesti storici usata per scopi geopolitici.
La verità, per chi guarda con occhi da stratega tecnologico, è che il vero potere non sta nel data mining dei testi antichi ma nel creare un’infrastruttura cognitiva capace di standardizzare la lettura della storia. Chi controlla il contesto culturale controlla le narrative future. E Google DeepMind lo sa benissimo. Non sorprenderebbe scoprire che i prossimi upgrade di Aeneas integreranno modelli multimodali, incrociando immagini 3D dei reperti, analisi chimiche dei pigmenti e perfino simulazioni sociali dell’epoca. La storia, per DeepMind, è un dataset incompleto da ottimizzare. E ottimizzare, nel loro vocabolario, significa dominare.
Inutile girarci attorno. L’intelligenza artificiale per l’archeologia digitale non è un esercizio accademico, è il prossimo terreno di conquista delle Big Tech. Chi si aspetta che questi strumenti vengano lasciati alle università non ha capito come funziona il gioco. Google non sta investendo per pubblicare paper su riviste specialistiche. Sta creando l’algoritmo che deciderà cosa è storicamente rilevante e cosa no. Se vi sembra un dettaglio marginale, ricordatevi che le guerre si combattono anche sulla memoria collettiva. Augusto lo sapeva bene quando fece incidere la sua autobiografia su pietra. DeepMind lo sa meglio, ora che ha imparato a leggerla.