Chiunque abbia memoria storica delle bolle finanziarie ricorderà con un sorriso amaro la corsa cieca dei primi Duemila, quando le dotcom senza business model venivano quotate con multipli da fantascienza e i CFO raccontavano agli analisti favole degne di un pitch da Silicon Valley. Oggi la narrativa sembra più raffinata, più algoritmica, più intrisa di intelligenza artificiale. Ma dietro l’apparente solidità del rally che ha spinto l’S&P 500 oltre quota 6.500, c’è l’avvertimento chirurgico di Goldman Sachs: se i colossi del cloud riducono la loro spesa in AI, il multiple dell’indice può contrarsi fino al 20%. Non un’eco qualsiasi, ma un boato che arriverebbe a scuotere la fiducia degli investitori più convinti.

La parola chiave è AI investment slowdown. Il rischio non è immediato, spiegano gli analisti guidati da Ryan Hammond, ma “inevitabile”. La dinamica è quasi matematica. Se Amazon, Alphabet, Meta, Microsoft e gli altri hyperscaler decidessero di riportare i livelli di capex ai valori del 2022, il castello di proiezioni da un trilione di dollari di ricavi aggiuntivi sull’S&P 500 perderebbe un terzo del suo valore potenziale. Questo si tradurrebbe in un crollo secco delle aspettative di crescita a lungo termine e in una compressione del multiple che lascerebbe molti investitori con il cerino acceso in mano.

Si potrebbe obiettare che i multipli attuali non hanno nulla a che vedere con la follia del 2000. E Goldman lo riconosce. Oggi i big five tecnologici viaggiano a 28 volte gli utili, rispetto alle 50 volte della bolla dotcom e alle 40 volte della breve euforia del 2021. Ma chi conosce il linguaggio sottile dei mercati sa che le bolle non esplodono per eccesso di ragionevolezza. Esplodono per un rallentamento della liquidità, per una crisi di fiducia, per un investimento che non rende quanto promesso.

Il punto dolente è la dinamica dei hyperscaler capex. La crescita della spesa è stata la linfa vitale del boom AI, con 368 miliardi già spesi quest’anno solo dai colossi del cloud. Non stiamo parlando di slide PowerPoint o di promesse in conferenza stampa, ma di denaro reale che fluisce verso Nvidia, AMD, Broadcom e una pletora di fornitori specializzati. È questa concretezza che rende il paragone con il 2000 imperfetto. Allora si compravano sogni, oggi si comprano chip da 40.000 dollari l’uno.

Il problema, però, è che anche i chip più costosi non sfuggono alla legge dell’entropia economica: a un certo punto la curva degli investimenti smette di salire e inizia a stabilizzarsi. La domanda che serpeggia tra i gestori è “quando arriverà quel plateau?”. Le stime di Goldman parlano di una decelerazione brusca tra fine 2025 e 2026. Ma la beffa, per chi ama le previsioni certe, è che ogni trimestre gli stessi hyperscaler aggiornano al rialzo la guidance, alimentando la sensazione che il ciclo possa durare più a lungo del previsto.

Intanto l’indice festeggia nuovi record, alimentato dalla narrazione di una rivoluzione tecnologica inevitabile. Gli investitori comprano perché credono, o almeno fingono di credere, che questa sia la volta buona in cui l’AI non è un hype passeggero ma un’infrastruttura destinata a ridefinire l’economia. È la stessa logica che nel 1870 spinse le ferrovie a moltiplicare i binari negli Stati Uniti. E se allora qualcuno perse fortuna e famiglia inseguendo il sogno dell’acciaio, oggi qualcuno rischia di bruciarsi inseguendo i datacenter.

La realtà è che la S&P 500 valuation resta appesa a un equilibrio fragile. Finché i flussi di cassa giustificano i multipli, la bolla resta sotto controllo. Ma basta una revisione al ribasso degli investimenti in AI perché i multipli attuali diventino improvvisamente insostenibili. È la differenza tra una crescita percepita come inevitabile e una crescita che mostra la sua vulnerabilità. Non è un caso che Goldman parli di “15-20% di downside” come scenario plausibile, non come catastrofe esogena ma come semplice normalizzazione.

C’è poi l’aspetto meno discusso, quello delle cosiddette Phase 3 companies. I beneficiari indiretti della rivoluzione AI, dal software enterprise ai settori trasversali come l’automotive o l’healthcare. Qui l’entusiasmo degli investitori si scontra con un paradosso imbarazzante: nonostante miliardi investiti, l’impatto tangibile sugli utili resta limitato. La domanda scomoda è se la catena del valore dell’AI si spezzi proprio dove dovrebbe generare il massimo ritorno. Perché senza adozione massiva e profitti concreti nei settori end-user, il castello si regge solo sulla promessa di hardware sempre più potente.

Forse è proprio questa la sottile ironia dei mercati moderni. Da un lato ci si indigna al solo pensiero di un’altra bolla, dall’altro si partecipa entusiasti al rito collettivo della sopravvalutazione, con la consapevolezza che l’ultima sedia musicale potrebbe smettere di suonare in qualsiasi momento. La differenza è che oggi il suono lo produce un algoritmo di machine learning e non un analista eccitato da una IPO senza fondamentali.

Il tempo, come sempre, sarà giudice impietoso. Ma chi oggi guarda ai record dell’S&P 500 dovrebbe tenere a mente che l’unico vero motore del rally è l’ipotesi che i capex degli hyperscaler continuino a crescere indefinitamente. Quando il ritmo cambierà, e cambierà, si capirà se stiamo assistendo a un ciclo di consolidamento fisiologico o all’ennesima rappresentazione teatrale della psicologia di massa che scambia crescita temporanea per progresso eterno.