Entrare in un bar di periferia alle otto del mattinopuò dare una lezione più sincera di geopolitica di qualsiasi conferenza a Davos. Si ascoltano i clienti, ognuno convinto di avere la verità in tasca, e ci si accorge che la nuova guerra fredda non si combatte con i missili, ma con chip da 5 nanometri, contratti miliardari e applicazioni che divorano l’attenzione dei teenager. Il bar dei daini di Villa Borghese, metafora perfetta per spiegare come OpenAI, Nvidia e TikTok stiano riscrivendo i rapporti di forza globali, diventa la sala riunioni improvvisata dove il futuro tecnologico viene discusso tra un bicchiere d’acqua frizzante e una briscola buttata sul tavolo.

OpenAI, che a detta di molti è ormai la Goldman Sachs dell’intelligenza artificiale, ha deciso di ridurre la fetta di ricavi concessa a Microsoft, suo alleato e finanziatore ingombrante. Non è solo un tecnicismo finanziario: è la mossa con cui un’azienda che brucia miliardi in potenza di calcolo rivendica il diritto a non restare per sempre sotto l’ombrello di Redmond. The Information ha calcolato che la quota di fatturato da spartire passerà dal 20% a un misero 8% entro il 2030. Significa che OpenAI punta a trattenere 50 miliardi di dollari in più, denaro che userà per comprare server, energia e silicio, cioè l’ossigeno del suo modello di business. Non è difficile intravedere l’ironia: l’azienda che ha reso mainstream il concetto di intelligenza artificiale generativa deve ora giocare di fino per non farsi stritolare proprio dal partner che l’ha spinta sul palcoscenico globale.

Mentre OpenAI litiga con Microsoft sul prezzo della libertà, dall’altra parte del Pacifico la Cina accusa Nvidia di aver violato le norme antitrust nell’acquisizione di Mellanox del 2020. Qui il gioco è più sporco. Nvidia è diventata l’architetto della rivoluzione AI grazie a schede che trasformano l’elettricità in previsioni, traduzioni, immagini e sogni. Senza le tecnologie di Mellanox, la costruzione di cluster giganteschi di GPU sarebbe stata più lenta, e quindi meno redditizia. Non sorprende che Pechino decida di rispolverare un accordo vecchio di cinque anni per colpire il gigante americano nel cuore della sua supply chain. È la legge del contrappasso geopolitico: tu limiti i nostri chip, noi mettiamo in discussione le tue acquisizioni. Il linguaggio del diritto commerciale diventa arma diplomatica, e il risultato è che ogni linea di codice, ogni porta Ethernet, diventa improvvisamente un atto politico.

Poi c’è TikTok, la piattaforma che nessun politico occidentale ammetterà mai di usare ma che tutti i loro figli consumano compulsivamente. Negli Stati Uniti, Trump gioca col destino dell’app come se fosse una pedina di scacchi: “potremmo lasciarla morire, oppure no, dipende dalla Cina”, ha dichiarato. Frase da bar, appunto, perfetta per un’America che finge di difendere la sicurezza nazionale mentre guarda con terrore al fatto che un algoritmo cinese conosce meglio di qualsiasi psicologo l’umore dei suoi adolescenti. Scott Bessent, Segretario al Tesoro, ha aggiunto che un accordo con Pechino è “molto vicino”. In altre parole, si tratta solo di decidere chi incasserà la rendita dell’attenzione degli americani: se ByteDance o un consorzio benedetto dalla Casa Bianca.

Nel frattempo, Google scopre che i suoi esperimenti con le panoramiche AI nei risultati di ricerca hanno un effetto collaterale prevedibile: ridurre drasticamente i clic verso i siti degli editori. Penske Media, proprietaria di Rolling Stone e Variety, ha fatto causa accusando Mountain View di cannibalizzare traffico e ricavi. Qui la partita è diversa, ma altrettanto feroce. Google ha costruito la sua fortuna nel distribuire traffico agli altri, trattenendo una percentuale con la pubblicità. Ora che decide di dare direttamente risposte generate dall’IA, il patto sociale che teneva in piedi l’ecosistema dei contenuti si sgretola. Se i lettori ottengono tutto senza cliccare, gli editori muoiono di fame. È la classica storia del barista che inizia a bere gratis i suoi stessi spritz: il locale chiude, e non resta che un deserto digitale di frasi preconfezionate.

In mezzo a questa giostra, la Cina apre anche un’indagine anti-dumping sui chip statunitensi, accusando Washington di svuotare nel mercato cinese vecchi semiconduttori per indebolire la concorrenza locale. È la fotografia perfetta di un conflitto commerciale che somiglia sempre più a una partita di poker truccata: ogni volta che gli Stati Uniti alzano la posta, Pechino rilancia con un’accusa speculare. La narrativa ufficiale parla di tutela dei consumatori e di concorrenza leale, ma chiunque frequenti i corridoi delle multinazionali sa che il vero obiettivo è rallentare la corsa dell’altro, guadagnare tempo, costringere il rivale a pagare prezzi più alti per lo stesso silicio.

È curioso notare come tutte queste vicende abbiano un filo rosso comune: il controllo dell’attenzione e del calcolo. OpenAI vuole tenersi i miliardi che oggi regala a Microsoft per costruire modelli ancora più potenti. Nvidia combatte per difendere la legittimità delle sue acquisizioni passate, perché senza Mellanox i suoi supercomputer sarebbero un colosso dai piedi d’argilla. TikTok deve convincere Washington che non è una spia travestita da app di balletti, mentre Google prova a trasformarsi da distributore a editore universale, con il piccolo dettaglio che nessuno l’ha autorizzata a farlo.

Il paradosso più grande è che tutti questi giganti parlano di innovazione, inclusione e progresso, ma agiscono come monopolisti ottocenteschi. È la riedizione aggiornata delle guerre dell’acciaio e del petrolio, con la differenza che questa volta l’oro nero si misura in teraflops e l’acciaio sono i dati personali. Chiunque pensi che l’intelligenza artificiale sia solo una tecnologia per scrivere poesie o generare immagini di gatti non ha capito la portata dello scontro. È in gioco la ridefinizione stessa del potere economico globale, e il bar dei daini diventa il palcoscenico più onesto per osservare la commedia: gente che discute di politica internazionale con la stessa leggerezza con cui commenta l’ultima partita di calcio.

La domanda è se l’Occidente riuscirà a mantenere il vantaggio tecnologico o se finirà intrappolato nei propri conflitti interni. OpenAI contro Microsoft, editori contro Google, governi contro TikTok: sembra un videogioco in cui il nemico è sempre qualcun altro, e nel frattempo la Cina osserva, accumula brevetti e produce chip alternativi. Non importa se i primi modelli saranno meno performanti: la storia ci insegna che chi controlla la produzione, anche a costo di partire in ritardo, finisce per dettare le regole.

Nel bar dei daini, un cliente chiede al barista: “Ma quindi questa intelligenza artificiale ci toglierà il lavoro o ci farà diventare più ricchi?”. Il barista sorride e risponde: “Dipende da chi possiede la macchina del caffè”. Una battuta che vale più di mille report. Perché alla fine il vero nodo non è la tecnologia, ma chi ne controlla i profitti.