Ci sono numeri che fanno rumore, altri che fanno finta di parlarci. Tesla, nel suo ultimo trimestre, ha deciso di fare entrambe le cose. Da un lato un 12% di crescita del fatturato che scintilla nei comunicati come una carrozzeria lucida sotto i riflettori. Dall’altro un utile netto crollato del 37%, che racconta una realtà molto più sfumata, fatta di margini che si assottigliano e di promesse future sempre più futuristiche. Elon Musk, come sempre, non si scompone. Si muove tra le conference call con la stessa leggerezza con cui un illusionista cambia mazzo di carte, parlando di robotaxi e robot umanoidi mentre il mercato si chiede ancora se Tesla sia una casa automobilistica o una religione tecnologica.

L’informazione economica vive spesso della stessa logica di un logo: una forma semplice che deve evocare potenza, fiducia, visione. E Musk, che di loghi e di simboli è maestro, sta provando a ridisegnare il marchio stesso del futuro, vendendo la narrativa del “glitch di denaro infinito”. L’idea che il robot Optimus o il servizio Robotaxi non siano semplici prodotti, ma stampanti tridimensionali di profitto, macchine semiautomatiche di valore. Peccato che per ora siano più un rendering che una realtà.

Il mercato non si fida mai troppo dei sogni, ma ama chi li vende bene. Così mentre il credito d’imposta federale da 7.500 dollari ha spinto le vendite di auto elettriche come un colpo di caffeina nel sistema, gli analisti contano i giorni fino alla scadenza e osservano se l’effetto dopante svanirà. È un meccanismo vecchio quanto la borsa: gonfiare, spingere, esaurire. Il ciclo perfetto dell’euforia capitalistica. Tesla ha cavalcato il picco, ma ora deve dimostrare di saper vivere anche nel plateau.

La questione interessante non è tanto se Tesla guadagnerà di più domani, ma se saprà reinventare l’idea stessa di utilità. Musk non parla più di margini, parla di mondi. Il robot Optimus non è un prodotto, è una promessa antropologica. È la replica dell’uomo nel ciclo produttivo, la materializzazione di un’ossessione vecchia come la rivoluzione industriale: sostituire l’essere umano con qualcosa di più efficiente, più obbediente, più redditizio. Ma la realtà è che anche l’automazione costa. Costa in ricerca, in tempo, in errori. Le mani di Optimus, per esempio, non riescono ancora a muoversi come quelle di un bambino. Un dettaglio banale, ma sufficiente a rimandare la produzione e a incrinare la narrativa dell’invincibilità.

È affascinante come, ogni volta che Tesla rallenta, Musk cambi il piano del discorso. Non parla più di auto, ma di infrastrutture cognitive. Non parla più di hardware, ma di coscienza artificiale. È il rebranding continuo della realtà, il logo dell’informazione applicato al business: cambiare forma per restare riconoscibile. In questo senso, Tesla è meno un’azienda e più un simbolo del tempo in cui viviamo. Tutto deve essere storia, ogni dato deve trasformarsi in narrativa, ogni flessione in visione.

I numeri, tuttavia, non sono visionari. Dicono che i profitti si stanno riducendo, che la competizione nei veicoli elettrici si è intensificata, che l’effetto “primo arrivato” si sta erodendo. I giganti cinesi hanno imparato a produrre più velocemente, a prezzi inferiori e con una capacità di adattamento che spaventa anche il più audace dei CEO. L’idea stessa di Tesla come sinonimo di innovazione rischia di diventare un archetipo stanco, un po’ come l’iPhone per Apple dopo il quindicesimo modello: ancora perfetto, ma prevedibile.

Forse il vero problema non è nei numeri, ma nel linguaggio. La bolla non è finanziaria, è semantica. “Robotaxi”, “Optimus”, “glitch di denaro infinito”: ogni termine è una costruzione linguistica pensata per evocare potere e inevitabilità. Ma il linguaggio, come i bilanci, ha un limite. Quando le parole smettono di corrispondere ai risultati, il mercato si ritrae. Le azioni Tesla, non a caso, hanno perso il 3% dopo la chiusura della borsa, un piccolo spasmo che racconta una verità grande: la fede ha bisogno di risultati tangibili per restare fede.

Eppure c’è qualcosa di magnetico in questa messinscena. L’idea di un’azienda che promette di colonizzare il futuro, mentre inciampa sulle mani di un robot, è il simbolo perfetto dell’epoca in cui la narrativa vale più del metallo, più della fisica, più della contabilità. Ogni trimestrale di Tesla non è solo un bilancio, è un rituale mediatico, un atto di fede collettiva in cui investitori, giornalisti e consumatori partecipano alla stessa illusione: che la tecnologia possa essere la nuova religione, e Musk il suo profeta ironico.

Nel frattempo, gli altri costruttori osservano. Volkswagen taglia, BYD accelera, Toyota finge disinteresse ma accumula brevetti. Tutti sanno che il futuro dell’elettrico non sarà definito dai margini, ma dall’algoritmo che saprà interpretare meglio i dati di guida, dall’intelligenza che controllerà i flussi energetici, dalla capacità di raccontare una storia credibile di sostenibilità. E qui Tesla ha ancora un vantaggio: la narrazione. Musk sa che il valore non è solo nella batteria, ma nell’attenzione. Il suo vero business è mantenere il mondo a guardare.

La grande ironia è che l’unico “glitch di denaro infinito” finora provato e funzionante è proprio l’attenzione pubblica. Finché Musk riesce a trasformare ogni ritardo in spettacolo e ogni flessione in visionarietà, Tesla continuerà a essere non solo un titolo azionario, ma un’icona culturale. La borsa premia chi sa raccontare, e nessuno racconta il capitalismo come Musk. Anche quando i conti non tornano, la narrazione sì.