Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

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Interviste – (DEI) diversità, equità e inclusione – Impatti Sociali ed Etici – Futuro e Prospettive – Legislazione e Regolamentazione -Educazione e Formazione – Lavoro e Formzione

😱 Non serve l’AGI: l’AI ha già pronto il tuo licenziamento

Ci siamo. Il sipario è caduto. Non stiamo più parlando di una distopia ipotetica o di scenari futuristici da romanzo cyberpunk: l’apocalisse del lavoro cognitivo è stata formalmente annunciata da chi ci lavora dentro, non da uno youtuber in cerca di click.

Sholto Douglas, non l’ultimo arrivato ma uno che ha fatto la spola tra DeepMind e Anthropic, lo dice chiaro: anche se da oggi l’Intelligenza Artificiale smettesse di evolversi, anche se l’AGI rimanesse un sogno bagnato nei laboratori di OpenAI e Meta, le tecnologie esistenti sono già in grado di automatizzare TUTTI i lavori da colletto bianco entro cinque anni. Hai letto bene: già ora, non nel 2040, non con l’AGI. Ora.

La memoria non è per sempre: l’oblio digitale come fallimento sistemico della civiltà

Ti sei mai chiesto dove finisca davvero la conoscenza? Non quella che usi tutti i giorni, ma quella sedimentata nei secoli, nei bit, nei backup, nei dischi che girano ancora in qualche data center surriscaldato della Virginia o della Cina. Spoiler: non finisce da nessuna parte. Si disintegra lentamente, silenziosamente, senza fare rumore. L’oblio, nel 2025, non è più una conseguenza. È una feature.

Il paradosso è grottesco: viviamo nell’era dell’iper-memorizzazione, della datafication totale di ogni respiro, parola, occhiata. Ogni like, ogni email, ogni passo tracciato da un accelerometro dentro il nostro smartwatch è registrato. Eppure, la conservazione del sapere – quello vero, quello che forma civiltà, non feed – è più fragile di quanto fosse su una tavoletta d’argilla del 2000 a.C.

KAUST La Silicon Valley del deserto non è un miraggio: è un’acquisizione ostile travestita da innovazione

C’è un luogo, immerso nel nulla della costa saudita, che sembra uscito da una simulazione di Ray Kurzweil sotto LSD. Un’enclave ipertecnologica, dotata di un supercomputer che fa impallidire il parco server di Google, incastonata in una monarchia teocratica che, fino a due minuti fa, vietava alle donne di guidare. Si chiama KAUST, King Abdullah University of Science and Technology, e se non ne hai mai sentito parlare è perché funziona esattamente come dovrebbe: silenziosa, chirurgica, determinata. Non è un’università. È un vettore strategico con la scusa dell’accademia.

Star Compute Quando l’intelligenza si fa orbitale: la Cina riscrive il concetto di supercomputer

La Cina non si accontenta più di dominare il mercato dei chip, le filiere delle terre rare o l’intelligenza artificiale generativa. No, ora punta direttamente allo spazio. Ma non con poetici voli lunari o sogni marziani alla Musk: parliamo di qualcosa di ben più concreto, funzionale e, ovviamente, strategico. Dodici satelliti sono appena stati lanciati nell’ambito del programma “Star Compute”, primi mattoni di una futura costellazione da 2.800 unità che, detta come va detta, sarà un supercomputer orbitante. Un mostro distribuito capace di elaborare i propri dati senza dover chiedere il permesso a una stazione di terra. Il tutto nel silenzio perfetto dello spazio e con la complicità del vuoto cosmico che si porta via calore e problemi energetici.

Giorgio Parisi: AI ultima chiamata per l’Europa o il treno è già deragliato?

In un’epoca in cui i bit valgono più dei bulloni e la scienza ha il ritmo di un algoritmo, Giorgio Parisi Nobel, cervello fino e ancora uno dei pochi umani non clonabili da un LLM lancia un grido d’allarme (o meglio: una provocazione travestita da proposta): serve un piano europeo per attrarre i ricercatori americani. Non per filantropia, ma per puro e cinico interesse strategico.

E non si tratta di lanciare fondi qua e là come coriandoli in una carnevalata ministeriale. Parisi che parla dalla sala dell’Accademia dei Lincei alla riunione del consiglio direttivo , ma sembra stia tuonando da un bunker operativo evoca Fermi, Einstein e il flusso inverso del brain drain: nel ‘33 si creava un fondo per salvare i cervelli in fuga dal nazismo, oggi serve un fondo per salvare l’Europa da sé stessa.

Oltre la materia: perché mia sorella aveva ragione e Bernardo Kastrup ce lo sbatte in faccia

Weekend Nerd

Avevo fatto pace con mia sorella entangled. Non una riconciliazione cinematografica, lacrime, abbracci e violini: un caffè amaro, parole storte, un silenzio più lungo del solito. Ma dentro qualcosa era cambiato. Un certo senso di interezza, come se un vortice nel mio campo mentale avesse smesso di lottare contro la corrente. Poi ascolto Bernardo Kastrup e tutto assume contorni più nitidi, più crudi, più veri. Non stiamo parlando di spiritualità patinata, ma di idealismo metafisico: roba da filosofi hardcore e ingegneri pentiti.

La coscienza, dice Kastrup, non è il risultato di cervelli grassi e sinapsi ispirate. È la realtà. Punto. E tutto il resto materia, spazio, tempo, sorelle incavolate è solo una rappresentazione. Non un’illusione, attenzione: un’apparenza. Il mondo, come lo percepiamo, è ciò che la mente appare essere quando la si osserva da fuori. E noi, tu, io, mia sorella e il barista che sbaglia sempre il mio ordine, siamo semplici vortici nella mente universale.

Europa vs AI Americana: il nuovo editto woke mascherato da legge anti-odio

Dalla serie cosa pensano gli Americani di noi Europei.

Benvenuti nella nuova teocrazia digitale. Solo che stavolta i preti portano cravatta, parlano 24 lingue, e fanno parte della Commissione Europea. L’ultimo colpo di genio di Bruxelles? Una legge che obbligherà le aziende di intelligenza artificiale — americane comprese ad allinearsi a una visione molto specifica di “discorso d’odio”, “valori europei” ed “etica ESG”.

Sì, anche se operano da San Francisco. Anche se hanno data center su Marte. L’algoritmo dovrà inginocchiarsi davanti all’altare di Bruxelles, pena l’esclusione dal mercato europeo. In una mossa che definire geopoliticamente invasiva è dir poco, l’UE ha deciso che non basta regolamentare le Big Tech sul proprio territorio. Ora si vuole imporre come oracolo morale del machine learning globale.

Luciano Floridi: Intelligenza artificiale e censura 3.0: quando l’algoritmo decide cosa vale la pena leggere

Inizia sempre così: una promessa seducente, una scorciatoia elegante mascherata da progresso. Prima ci hanno detto che l’intelligenza artificiale ci avrebbe aiutato a trovare le informazioni giuste. Ora, con gli editorial LLM interfacce basate su modelli linguistici di grandi dimensioni ci dicono che ci aiuterà anche a scrivere, giudicare, selezionare. Benvenuti nel nuovo ordine editoriale, dove la parola chiave non è più “peer-review” ma prompt engineering.

L’editoria accademica, un tempo regno di lente riflessioni e battaglie ermeneutiche a colpi di citazioni, è sempre più simile a un flusso dati gestito da macchine addestrate su milioni di testi che capiscono tutto tranne il significato.

Ricerca perduta: come la Cina sta spegnendo la propria intelligenza artificiale

Sono stato nell R&D per decenni, dopo i grandi successi dei modelli open source cinesi mi ero fatto una idea romantica e magari un po’ utopica sul sistema cinese. Poi ho conosciuto Lin 林 al Bar dei Daini, giovane ricercatrice, “maker” esperta di tecnologia che mi ha detto il suo punto di vista.

I nativi di Shenzhen sono pochi. Lin, nata e cresciuta qui, ha un legame unico con questa città in continua trasformazione. Milioni di persone arrivano dalle province per visitare questo centro tecnologico, che da piccolo villaggio è diventato uno dei principali poli di ricerca in Cina. Shenzhen è cruciale per una Cina che aspira a superare gli Stati Uniti nell’innovazione tecnologica, e Lin è un volto simbolo di questa Cina proiettata al futuro, anche in Occidente.

Nel cuore dell’apparato accademico cinese, oggi, si respira un paradosso surreale. Mentre il Paese investe cifre astronomiche nella ricerca oltre 3,6 trilioni di yuan nel 2024 la possibilità concreta di innovare si sta assottigliando dietro una cortina di burocrazia, conformismo e premi autoreferenziali. L’intelligenza artificiale, teoricamente pilastro del primato tecnologico nazionale, è diventata un campo minato dove la creatività viene soppesata a colpi di titoli, pubblicazioni e connessioni personali.

Lin Hsin-hui: Intimità senza contatto

L’intimità vietata: l’algoritmo della solitudine e l’utopia tossica di Hsin-Hui Lin

Allieva di Chi Ta-wei, autore di Membrana e figura di culto della fantascienza queer asiatica, Hsin-Hui Lin 林新惠 (1990) non si limita a seguirne le orme: le distorce, le amplifica, le radicalizza. Dove Membrana ci portava in un futuro in cui il corpo umano è ridotto a contenitore biologico per identità fluide e intelligenze digitali,Lin Hsin-hui: Intimità senza contatto (Contactless Intimacy) opera un’ulteriore torsione, privando il corpo non solo della sua fisicità ma anche della sua agency. La fantascienza queer di Chi si fondava su un hacking dell’identità di genere, sulla mutazione come possibilità politica. Lin prende quella possibilità e la innesta in un mondo in cui ogni mutazione è standardizzata, sterilizzata, imposta da un’autorità algoritmica.

Chi Ta-wei aveva già tracciato i confini di una sessualità postumana, ma la sua era ancora animata da una certa speranza utopica: la fine del corpo come limite significava, per lui, una nuova liberazione identitaria. Hsin-Hui Lin, invece, guarda lo stesso scenario con l’occhio cinico di chi ha vissuto un lockdown globale e ne ha assaporato l’isolamento forzato. Il corpo non è più un ostacolo: è un rischio epidemiologico, un problema da eliminare. La sessualità, anziché liberarsi, viene riscritta in chiave normativa e performativa, secondo parametri di “sincronizzazione” stabiliti da un’intelligenza artificiale che finge di essere neutra, ma in realtà ricalca e perpetua le stesse strutture patriarcali e gerarchiche del passato.

Zuckerberg dichiara guerra all’industria pubblicitaria: l’era del creativo infinito è iniziata

Se non sei già in modalità “allarme rosso“, forse è il caso di iniziare a preoccuparsi. Mark Zuckerberg ha appena fatto qualcosa che, nel mondo degli affari e delle tecnologie, rasenta l’annuncio di guerra nucleare: ha messo nel mirino l’intera filiera dell’advertising. Non solo l’ha fatto, ma l’ha detto chiaramente e pubblicamente. Durante una conversazione con Ben Thompson di Stratechery, ha enunciato con glaciale semplicità un piano che non lascia spazio a dubbi: Meta vuole sostituire tutto il comparto creativo dell’advertising con l’intelligenza artificiale. Non ottimizzarlo. Non potenziarlo. Sostituirlo.

American panopticon: la fine della privacy tra Silicon Valley e Stato profondo

La storia del Panopticon nasce nel 1791, ma la sua realizzazione più perversa sta accadendo adesso, sotto gli occhi impassibili dell’opinione pubblica e grazie a una convergenza inquietante tra potere politico, infrastruttura digitale e sorveglianza algoritmica. Jeremy Bentham l’aveva pensato per le prigioni, uno strumento architettonico per il controllo totale con il minimo sforzo. Ora siamo di fronte a una trasmutazione concettuale: da prigione fisica a prigione algoritmica. Da struttura penitenziaria a infrastruttura statale.

E se c’è un luogo dove questa distopia sta prendendo forma con velocità inquietante, è negli Stati Uniti d’America.

Distant writing: come l’intelligenza artificiale sta reinventando la scrittura e demolendo l’autore

Benvenuti nella nuova era della “distant writing”, un concetto introdotto da Luciano Floridi, che si candida ad essere la prossima rivoluzione copernicana della letteratura. Se prima si parlava di “distant reading”, ovvero l’analisi computazionale dei testi su larga scala proposta da Franco Moretti, oggi il pendolo si sposta ancora più in là: non ci limitiamo a leggere macro-pattern letterari, ora li generiamo direttamente con l’ausilio di modelli di linguaggio come GPT.

Superintelligenza americana: sogno di potenza o auto sabotaggio tecnologico?

In un’America che si racconta come paladina dell’innovazione, la realtà si sta rapidamente sgretolando sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. La narrazione istituzionale — una spinta muscolare verso l’intelligenza artificiale “American-made“, una serie di Executive Orders che suonano più come comandi militari che direttive democratiche si scontra violentemente con il fatto brutale che i laboratori di ricerca si svuotano, i fondi evaporano, i talenti migliori migrano verso lidi più fertili e meno tossici.

Abbiamo trovati il report “America’s Superintelligence Project” di Gladstone AI, una pietra miliare intrisa di paranoia strategica e inquietudine geopolitica, dipinge un futuro degno di un romanzo distopico di fine anni ’80. Qui, le facilities che si immaginano non sono campus universitari vivaci, né laboratori open-space da Silicon Valley, ma fortezze remote, sorvegliate da apparati militari, dove la creatività dovrebbe prosperare sotto occhi vigili, magari armati.

Universo intelligente, cervello inutile? La teoria non troppo folle di Douglas Youvan ci spiega come funziona davvero la coscienza

Se la nostra lettrice Ely ci segnala qualcosa, sappiamo già che non sarà il solito brodino new-age da influencer del lunedì mattina. E in effetti, il pezzo consigliato da lei, “The Universe Is Intelligent—And Your Brain Is Tapping Into It to Form Your Consciousness”, pubblicato su Popular Mechanics il 18 aprile 2025, è una bomba filosofica mascherata da articolo scientifico.

Secondo Douglas Youvan, Ph.D. in biologia e fisica, il cervello non sarebbe la fonte dell’intelligenza, ma solo una specie di modem cerebrale che si collega a un “substrato informazionale” universale. Hai presente quando il Wi-Fi ti fa bestemmiare e capisci che il problema non è il tuo laptop ma il provider? Ecco, applicalo alla coscienza. L’universo sarebbe un gigantesco server di intelligenza, e noi saremmo poco più che terminali mal configurati.

Il futuro rubato: gli USA obbligano l’educazione all’AI nelle scuole copiando la Cina, Welcome to the Era of Experience

È sempre divertente quando la realtà supera il teatro. A quanto pare, solo sei giorni dopo che la Cina ha annunciato l’introduzione obbligatoria dell’educazione all’intelligenza artificiale a partire dai sei anni, gli Stati Uniti hanno deciso di non restare indietro. Ieri, con una mossa che puzza di disperazione mascherata da lungimiranza, l’ex presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che impone l’insegnamento obbligatorio dell’AI in tutte le scuole primarie e secondarie.

Benvenuti nell’era dell’esperienza: come l’intelligenza artificiale sta finalmente crescendo senza genitori

Se hai sempre pensato che l’intelligenza artificiale di oggi assomigliasse a un ragazzino viziato che impara solo ripetendo a pappagallo quello che sente dagli umani, allora David Silver e Rich Sutton sono qui per dirti che il tempo delle coccole è finito. Il loro saggio “Welcome to the Era of Experience” suona come il manifesto di una rivoluzione: l’era dei dati umani è arrivata al capolinea e il futuro appartiene agli agenti che imparano da soli, esperendo il mondo come se fossero piccoli esploratori ribelli.

Finora l’AI ha camminato tenuta per mano. Supervised learning, fine-tuning con dati umani, reinforcement learning da feedback umano: tutto questo ha costruito sistemi brillanti ma fondamentalmente dipendenti. Non appena l’ambiente cambia, questi modelli mostrano la fragilità tipica di chi ha solo imparato a memoria senza mai capire davvero il gioco.

Viviamo nell’epoca degli ossimori: quando tutto è possibile ma niente è reale

Viviamo immersi in un teatro dell’assurdo iperconnesso, dove ogni progresso promette liberazione e invece ci stringe in nuove catene invisibili. È il secolo in cui ogni risorsa abbonda ma ogni speranza si sgretola, dove l’efficienza si misura in millisecondi e la fragilità si manifesta in interi sistemi sociali, ambientali e umani che crollano sotto il peso delle loro stesse ambizioni.

Mai come oggi abbiamo eliminato così tanta frizione a livello individuale. Clicchi, scorri, parli, e tutto ti arriva — cibo, intrattenimento, compagnia sintetica eppure, a livello sistemico, tutto è diventato più complesso, più burocratico, più instabile. Un paradosso ben confezionato nella user experience, che ti fa sentire il re del tuo mondo personale, mentre il mondo stesso brucia tra disuguaglianze crescenti e infrastrutture obsolete.

A Replica for Our Democracies? Se la democrazia va in laboratorio, il gemello digitale di Floridi e l’algoritmo che voleva governare il mondo

Luciano Floridi colpisce ancora. Uno di quegli intellettuali che riesce a trasformare una cattedra in un laboratorio di alchimia digitale, dove filosofia, AI e ingegneria sociale si impastano in qualcosa che a metà tra l’etica e il project management distopico. Il suo nuovo articolo, firmato con un dream team di cervelloni internazionali, non è solo un esercizio accademico: è una proposta molto concreta, molto seria, e vagamente inquietante. Un passo più vicino all’algoritmo che si credeva Rousseau.

Il titolo sembra innocuo, quasi educato: A Replica for Our Democracies? Ma dietro il punto interrogativo si nasconde la vera proposta: creare digital twins gemelli digitali delle comunità deliberative per simulare, testare, ottimizzare, correggere e magari anticipare le decisioni politiche prima che vengano prese nel mondo reale. Tipo: “Facciamo decidere prima agli avatar e vediamo come va”. Se funziona, poi magari lo facciamo davvero.

Come l’uso dell’AI sta influenzando il nostro pensiero critico, la memoria e la creatività: una riflessione sulla salute del cervello

L’intelligenza artificiale (AI) ha invaso ogni angolo della nostra vita quotidiana, promettendo di semplificare compiti complessi e migliorare l’efficienza in vari settori, dalla salute alla gestione aziendale. Tuttavia, mentre l’AI continua a riscrivere il nostro modo di lavorare e interagire con il mondo, emergono preoccupazioni riguardo ai suoi effetti sul nostro cervello e sulle nostre capacità cognitive. Alcuni studi recenti hanno iniziato a tracciare la linea sottile tra i benefici tangibili dell’AI e i costi invisibili che essa impone al nostro benessere mentale.

Uno degli aspetti più rilevanti riguarda l’effetto dell’AI sul pensiero critico. Uno studio condotto dalla Swiss Business School ha messo in evidenza come un uso eccessivo di AI possa indebolire le capacità di pensiero critico. I giovani, che tendono a fare più affidamento sull’AI, sono risultati avere punteggi più bassi nelle valutazioni di pensiero critico, mentre gli adulti più anziani, che si affidano meno alla tecnologia, hanno ottenuto risultati migliori. Questo fenomeno è stato confermato anche da una ricerca congiunta di Microsoft e Carnegie Mellon, che ha sottolineato come l’uso intensivo di AI aumenti l’efficienza ma diminuisca la capacità di analisi critica. Se ci abituiamo a delegare il nostro processo di pensiero a un algoritmo, rischiamo di diventare meno abili nel risolvere problemi da soli.

Donne, algoritmi e pane raffermo: la rivincita del cervello femminile nella Silicon Valley d’Oriente

Nel contesto di una società che celebra la tecnologia come nuovo oracolo, la figura della donna nelle discipline STEM continua a essere sottorappresentata, troppo spesso relegata a ruolo decorativo nei panel aziendali o strumentalizzata nelle campagne pubblicitarie dall’inconfondibile retrogusto di marketing rosa. Il problema non è solo quantitativo, ma profondamente culturale: la matematica, l’ingegneria, la scienza e la tecnologia sono ancora percepite come territori maschili per eccellenza, dove la presenza femminile viene vista come un’eccezione statisticamente tollerabile ma raramente valorizzata.

Eppure, in spazi di innovazione come l’Hong Kong Science and Technology Park, esiste una generazione di professioniste che non chiede inclusione, la impone. Figure come Florence Chan, Angela Wu, Wendy Lam, Gina Jiang e Megan Lam, Inhwa Yeom incarnano un nuovo paradigma: quello della competenza femminile che non solo compete, ma supera. Il loro lavoro è sintesi tra eccellenza accademica e applicazione pratica, tra rigore scientifico e intuito strategico, in una costante tensione verso la risoluzione di problemi complessi che spaziano dalla biomedicina alla neurotecnologia.

Quando l’intelligenza artificiale impara dalla spazzatura

L’AI non è né buona né cattiva, è semplicemente lo specchio di chi l’ha addestrata. E in ambito sviluppo software, questo significa che riflette l’incompetenza generalizzata dell’umanità moderna nel saper scrivere codice decente. Potremmo raccontarcela con toni più politically correct, ma la realtà resta brutale: la maggior parte del codice che gira online fa schifo. E siccome l’AI è un animale statistico, imparando da quella spazzatura, finirà inevitabilmente per riproporla. Benvenuti nell’età dell’automazione della mediocrità.

Quando parliamo di “bad code”, non ci riferiamo solo a codice che non compila. Quello è il male minore. Parliamo di codice che compila, gira, funziona, ma che è un disastro da leggere, estendere, manutenere o semplicemente capire. Codice privo di coerenza architetturale, senza test, pieno di hardcoded, di if annidati come le matrioske dell’orrore, di nomi di variabili che sembrano partoriti da uno scimmione bendato: foo, temp, x1, y2. E se credi che questi esempi siano caricature, fai un giro nei repository pubblici di GitHub. Vedrai orrori che farebbero piangere un compilatore.

Genesi: l’Intelligenza Artificiale secondo Kissinger, Schmidt e Mundie e la fine dell’innocenza tecnologica


Non è un saggio tecnico, né un pamphlet ideologico: Genesi è un avvertimento. È un Kissinger lucido, anziano e quasi profetico che guarda l’intelligenza artificiale non con la curiosità del boomer che prova ChatGPT, ma con la diffidenza dello stratega che ha capito che qualcosa, stavolta, è cambiato per davvero. Firmato insieme a Eric Schmidt, ex CEO di Google, e Craig Mundie, cervello di Microsoft, il libro è la cronaca di un’era che si chiude e di un’altra che inizia con una domanda scomoda: siamo davvero ancora noi a decidere?

L’inizio è una bomba epistemologica. Non stiamo parlando di uno strumento. L’IA non è più una leva che l’uomo usa per sollevarsi, ma una forza autonoma che ridefinisce ciò che intendiamo per verità, conoscenza, realtà. È un’entità che non sente, non teme, non si stanca. Una macchina senza morale, che diventa paradossalmente più efficiente proprio perché le manca quel freno invisibile che chiamiamo coscienza.

L’universo come start-up: la complessità cresce, anche senza KPI

L’universo. Quel posto affascinante e inospitale che da miliardi di anni si diverte a produrre galassie, stelle, frittate e imprenditori tech. Secondo una nuova teoria, potrebbe esserci un principio universale che spinge tutto, vivente o meno, a diventare sempre più complesso. Non per scelta, non per gusto estetico, ma perché è nella natura stessa della realtà. E no, non è una provocazione filosofica da bar: parliamo di fisica teorica, quella che solitamente vive sospesa tra il sublime e l’indimostrabile.

La provocazione è elegante: esiste una sorta di freccia del tempo della complessità, un’evoluzione non solo biologica, ma sistemica, strutturale, cosmica. Se i sistemi complessi tendono a diventare ancora più complessi col tempo, allora l’evoluzione della vita è solo una manifestazione locale e parziale di un principio molto più ampio. Non è darwinismo, è cosmologismo.

Rie Qudan Tokyo-to Dojo-to: Quando l’intelligenza scrive meglio dell’autore

Certe storie sembrano uscite da un racconto distopico, ma quando la realtà si traveste da narrativa, il paradosso non fa più ridere. Anzi, suona beffardo. L’ultima perla arriva dal Giappone, patria della tecnologia e della disciplina creativa, dove Rie Qudan, fresca vincitrice dell’ambitissimo Akatugawa Prize (premio letterario che in terra nipponica vale quanto un Nobel in miniatura), ha candidamente confessato che buona parte del suo romanzo premiato “Tokyo-to Dojo-to” è stato scritto a quattro mani con ChatGPT. Nessun ghostwriter umano, nessun tirocinante sottopagato: a farle compagnia nel viaggio creativo è stata l’intelligenza artificiale generativa.

L’intelligenza che sfida l’America: la leggenda silenziosa di Liang Wenfeng e la rivincita di Mililing

Nel cuore dimenticato della provincia del Guangdong, c’è un villaggio che fino a pochi mesi fa non esisteva nemmeno su Google Maps.Si chiama Mililing, 700 persone, un nome che suona come una ninna nanna contadina, ma che oggi è diventato un pellegrinaggio tech grazie a un uomo che non vuole farsi fotografare: Liang Wenfeng, 40 anni, mente dietro DeepSeek, la startup cinese che ha scompigliato le carte dell’intelligenza artificiale mondiale.

ReShoring Il principio di realtà non è cinismo, è sopravvivenza

L’epopea del “torniamo a produrre in casa” è diventata il nuovo sport nazionale dei talk show e delle newsletter economiche di chi non ha mai visto una catena di montaggio dal vivo, ma sa tutto del reshoring grazie a un TED Talk. L’idea che possiamo riportare a casa centinaia di miliardi di produzione industriale è la nuova fiaba per adulti – solo che invece di finire con “e vissero felici e contenti”, finisce con debito pubblico, delocalizzazioni 2.0 e disoccupazione camuffata da “upskilling”.

Perché sì, magari ce lo siamo dimenticati, ma l’USA è un paese con il 4% di disoccupazione ufficiale, che ha deciso che gli immigrati sono un problema invece che una risorsa (soprattutto quando servono per fare i lavori che nessun vuole più fare). Un paese che ha una manifattura che in molte aree è ancora ferma al tornio e alla pressa, ma che dovrebbe competere con le smart factory tedesche e cinesi e le supply chain asiatiche integrate su ERP di quarta generazione.

Luciano Floridi: L’eclissi dell’analogico: perché i bit stanno divorando il mondo e il mondo non se ne accorge

Articolo completo disponibile qui

Nel suo saggio The Eclipse of the Analogue, the Hardware Turn, and How to Deal with Both, Luciano Floridi firma un manifesto filosofico che è tanto un’allerta quanto una diagnosi cinica e lucida sul rapporto sempre più tossico tra digitale e analogico. Il testo, a tratti feroce nella sua chiarezza, è una lettura che ogni CTO, policymaker e filosofo (anche quelli travestiti da imprenditori) dovrebbe tenere come guida per non diventare l’ennesimo adoratore del feticcio digitale.

Floridi articola tre tesi connesse ma devastanti nella loro implicazione: primo, l’epistemologia del nostro tempo è mediata da modelli digitali che eclissano i sistemi reali; secondo, il potere non è più nel codice ma nell’hardware che lo supporta, in quella che chiama “hardware turn“; terzo, la soluzione non è un ritorno nostalgico al passato analogico, ma una combinazione riformulata di educazione critica (Paideia), legislazione robusta (Nomos), e una sovranità digitale capace di presidiare il confine sempre più labile tra ciò che è vero e ciò che è simulato.

Dietro il sorriso dell’intelligenza artificiale cinese: genio, gloria e morti premature

La corsa globale all’intelligenza artificiale è un tritacarne. Gli Stati Uniti e la Cina sono impegnati in una guerra tecnologica dove il dominio sull’AI non è solo una questione di supremazia economica, ma un braccio di ferro geopolitico. Mentre le startup americane cavalcano la bolla della generative AI a colpi di venture capital e stock option, la Cina gioca la sua partita con ferocia quasi darwiniana: cervelli reclutati, rimpatriati, spremuti. E talvolta, prematuramente sepolti.

Negli ultimi anni, l’industria dell’AI in Cina ha perso alcune delle sue menti più brillanti, stroncate da malattie improvvise, stress, missioni militari o sfortune ad alta quota. Le storie sembrano uscite da un episodio di Black Mirror girato a Pechino: giovani talenti, progetti ambiziosi, pressioni etiche e ambienti di ricerca tossici che non concedono tregua.

Microsoft scommette 80 miliardi nel cloud: Noelle Walsh dietro le quinte del nuovo impero AI

Noelle Walsh, tra i volti chiave dietro l’espansione muscolare dell’infrastruttura cloud di Microsoft, ha celebrato i 50 anni dell’azienda lo scorso 4 aprile con un tono da dichiarazione di guerra industriale. Un messaggio che suona più come una risposta diretta alle crescenti pressioni di mercato che come un brindisi istituzionale: Microsoft ha raddoppiato la capacità dei suoi datacenter negli ultimi tre anni, con il 2024 che già promette di essere l’anno più bulimico di sempre. E per il 2025, prepariamoci a un nuovo record. Il tutto condito da una cifra che si stampa in fronte: 80 miliardi di dollari di investimenti solo quest’anno, destinati a rafforzare il colosso cloud e AI che Redmond sta trasformando in una sorta di “Azure-centrismo” globale.

Hypnocracy e il filosofo che non esiste: come Jianwei Xun ha ipnotizzato il pensiero europeo con l’AI, grazie Andrea Colamedici

Quando una narrazione troppo perfetta puzza di falso, c’è spesso un motivo. Jianwei Xun, presunto filosofo di Hong Kong, autore del controverso ma acclamato Hypnocracy, non è mai esistito. O, per meglio dire, è esistito solo come idea. Ologramma culturale. Fantasma performativo dell’intelligenza artificiale.

Dietro questa maschera orientaleggiante, evocativa e calibrata per scivolare nei cataloghi di filosofi cosmopoliti da festival, c’era invece Andrea Colamedici editore italiano e illusionista concettuale coadiuvato da Claude di Anthropic e ChatGPT di OpenAI. Due cervelli sintetici per confezionare un pensiero altrettanto sintetico, costruito ad arte per sedurre un Occidente affamato di verità mistiche e distopiche.

La truffa non è nemmeno stata ben mascherata. Basta dare un’occhiata alla scheda del libro su Amazon, o alle prime versioni del sito ufficiale del “filosofo”, salvate diligentemente dalla Wayback Machine: una biografia scritta con lo stesso tono con cui si generano i profili LinkedIn da manuale. Nato a Hong Kong, studi a “Dublin University” — che, a proposito, non esiste — e un pensiero a metà tra il taoismo 2.0 e Foucault impastato con gli hallucination dell’IA.

Papa Francesco incontra JD Vance: due visioni inconciliabili sull’etica e il destino dell’occidente

Non è un semplice incontro, ma un vero e proprio scontro culturale celato dietro il velo del protocollo. JD Vance, senatore dell’Ohio, fervente sostenitore di Donald Trump e figura simbolo del conservatorismo high-tech con radici nell’America rurale, sbarca a Roma proprio nel giorno del Venerdì Santo. Non per una visita spirituale, ma per un colloquio con Papa Francesco, il pontefice gesuita che ha fatto dell’accoglienza, della misericordia e di un’ecologia integrale il cuore del suo messaggio. Due visioni opposte. Due ethos inconciliabili. Due strade che guardano a futuri diametralmente opposti.

Rivista.AI aveva già fiutato l’odore della polvere da sparo culturale quando, prima ancora che fosse eletto, analizzava l’ascesa di Vance come sintomo dell’intelligenza artificiale populista. Un uomo che si è fatto da sé, partendo da un’America bianca abbandonata, ripulita e poi reinterpretata nel bestseller Hillbilly Elegy, oggi brandisce la fede come un’arma politica. La sua visione etica? Gerarchia, ordine, valori “tradizionali” restituiti con la grazia di un algoritmo impazzito. Niente inclusività, poco perdono, tanta nostalgia per un passato che non tornerà.

La guerra dell’intelligenza: come l’AI ha messo fine all’era dei talenti umani (e alle illusioni della Silicon Valley)

Non è una guerra per il talento, è una guerra per l’intelligenza. E gli umani stanno perdendo.

L’evoluzione più evidente del mercato del lavoro negli ultimi anni non è tanto l’avvento dell’AI, quanto il riequilibrio dei poteri tra lavoratori e aziende. Durante l’era della “War for Talent”, le persone più intelligenti, più abili e più formate erano una risorsa scarsa. Le aziende, per attirarle, offrivano benefit, flessibilità e un ambiente di lavoro accogliente. Ne è nata la cultura delle startup con ping pong in ufficio, stock options, settimane lavorative di quattro giorni e un’attenzione morbida e paternalistica alla soddisfazione del dipendente.

Ora tutto questo sta morendo. Perché il talento umano non è più in testa alla classifica.

AI for the rest of us: l’illusione di un’IA gentile in un mondo predatorio

Anche il più “umanista” dei libri sull’intelligenza artificiale è già un prodotto del sistema che pretende di criticare. Ma se a suggerirtelo è qualcuna che sa leggere tra le righe, allora forse vale la pena fidarsi.

Non capita spesso che un libro tecnico riesca a promettere rivoluzioni morali con il tono di un TED Talk motivazionale, ma AI for the Rest of Us di Phaedra Boinodiris e Beth Rudden, curato da Peter Scott, ci prova con convinzione. Un titolo apparentemente inclusivo, quasi ingenuo, che cerca di restituire il controllo dell’intelligenza artificiale alle masse, o almeno di far credere che sia possibile. È un’opera a metà tra il manifesto etico e la guida concettuale, scritta per chi vuole sentirsi parte del cambiamento senza dover imparare a programmare in Python.

Scott Bessent e il ruolo dell’intelligenza artificiale di DeepSeek nel crollo dei mercati: un’analisi della situazione economica globale

Il mercato azionario mondiale sta attraversando una fase di turbolenza che ha attirato l’attenzione di molti osservatori, in particolare a causa della continua discesa dei principali indici. Tuttavia, mentre la narrativa prevalente suggerisce che le politiche economiche di Donald Trump siano la causa principale di questo calo, Scott Bessent, segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha lanciato una visione contrastante, suggerendo che il vero fattore scatenante del crollo possa essere l’emergere di DeepSeek, un avanzato strumento di intelligenza artificiale sviluppato in Cina.

Bessent, intervistato da Tucker Carlson su Fox News, ha fatto un’affermazione provocatoria, chiarendo che la discesa dei mercati è iniziata ben prima dell’intensificarsi delle politiche tariffarie di Trump. Secondo lui, il vero catalizzatore del calo sarebbe stato l’annuncio del lancio di DeepSeek, l’innovativo modello di intelligenza artificiale cinese, che ha scosso i mercati globali con una potenza dirompente.

Il crollo dell’Internet globale: Come la politica di Trump minaccia l’industria tecnologica americana in Europa

L’industria tecnologica americana si trova di fronte a una nuova realtà geopolitica che potrebbe mettere a rischio uno dei suoi mercati più redditizi: l’Europa. Le grandi aziende tecnologiche come Alphabet, Meta e OpenAI, che per anni hanno navigato senza troppi intoppi nei mercati globali, si trovano ora in una posizione scomoda, intrappolate tra la crescente ostilità degli Stati Uniti verso l’Europa e la crescente diffidenza europea nei confronti della supremazia tecnologica americana. La situazione si è complicata ulteriormente con l’amministrazione Trump, che non solo ha intrapreso una guerra commerciale con la Cina, ma sembra ora disposta a compromettere i legami transatlantici, mettendo a rischio l’accesso delle aziende tech americane ai mercati europei.

Negli ultimi dieci anni, il panorama tecnologico globale è cambiato drasticamente. Le aziende tecnologiche americane, un tempo convinte che Internet sarebbe stato uno strumento di liberalizzazione politica, si sono ritrovate ad affrontare una crescente divisione geopolitica. L’amministrazione Trump, con il suo approccio nazionalista e la sua visione di un’America più isolata, ha messo in difficoltà le stesse aziende tecnologiche che avevano goduto della protezione politica di Washington. L’Europa, da parte sua, ha iniziato a chiedersi se la sua dipendenza dalle tecnologie americane non fosse un rischio per la sua sicurezza nazionale e competitività.

Patriarcato, una spiegazione economica


Buongiorno lettore o lettrice,
Oggi in data 04/04/2025 mi trovo qui a scrivere un piccolo tema riguardo il sessismo; è da molto che penso e che raffino la mia teoria; perciò, ho trovato opportuno scrivere un temino visto che la scrittura è la mia forma preferita di espressione e mi permette di esplicitare le mie idee in maniera stabile nel tempo.

In questo temino spiegherò il mio pensiero sul perché esiste la società patriarcale, della sua evoluzione e della sua fine. Partirò dai cacciatori-raccoglitori, soffermandomi a lungo sull’agricoltura di sussistenza e concludendo con le rivoluzioni industriali.

Chi racconta la storia controlla l’AI: narrativa, potere e propaganda digitale

Platone – o chi per lui – diceva che “Chi racconta le storie governa la società.” Mai come oggi questa affermazione è vera, e non perché i racconti siano ormai monopolio di chatbot e algoritmi (anche se sarebbe un esperimento mentale interessante). Il punto cruciale è un altro: la frizione tra le diverse storie che vengono raccontate sull’AI dipende moltissimo da chi le racconta. E il bello è che queste narrative, pur contraddittorie, coesistono nella stessa bolla informativa, ognuna con un’agenda più o meno nascosta.

Questa dinamica non è nuova nella Silicon Valley, dove il controllo della narrazione è sempre stato un elemento chiave della strategia delle big tech. Steve Jobs diceva che “Le persone non sanno cosa vogliono finché non glielo mostri”, una frase che sintetizza perfettamente la filosofia dietro molte delle narrative che oggi plasmano il discorso sull’AI. Andiamo a vedere i principali storyteller di questa nuova rivoluzione.

L’illusione della crescita infinita: quando l’AI lavora e l’essere umano scompare

La METR (Measuring AI Ability to Complete Long Tasks) ci lancia una previsione degna della vecchia Legge di Moore: l’autonomia operativa delle intelligenze artificiali sta raddoppiando ogni sette mesi dal 2019. Se il trend prosegue, nel giro di cinque anni potremmo avere IA capaci di realizzare in autonomia il grosso dei task che oggi occupano giorni o settimane di lavoro umano. Entro la fine del decennio, potremmo vedere AI in grado di portare avanti progetti della durata di un mese senza alcun intervento umano. Fantascienza? No, una proiezione matematica basata sui dati attuali.

Ma qui si apre il solito dibattito: cosa accade quando l’automazione cresce a velocità esponenziale mentre l’economia rimane vincolata a un modello che assegna valore alla capacità di spesa umana? Il nodo centrale è sempre quello: che senso ha produrre in modo iperefficiente se la domanda crolla perché i lavoratori-consumatori non esistono più? L’idea di un’economia in cui tutto diventa “quasi gratuito” grazie all’automazione totale è una narrazione da venture capitalist con il lusso di ignorare le dinamiche macroeconomiche.

La guerra commerciale: le tariffe di Trump criticate da alcuni economisti

La recente offensiva tariffaria del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha annunciato tariffe del 10% su tutti i Paesi e tariffe maggiori per quelli considerati i “peggiori trasgressori”, ha suscitato un’ondata di critiche tra gli economisti. La reazione a queste nuove misure economiche, che coinvolgono una vasta gamma di Paesi e si estendono a livello globale, non si è fatta attendere. Una delle critiche più severe è arrivata da Lawrence Summers, ex segretario del Tesoro e direttore del National Economic Council durante la presidenza di Barack Obama, che ha definito questa formula economica come “quello che il creazionismo è per la biologia”.

Quando Trump ha presentato la tabella delle tariffe nel giardino delle Rose, spiegando che l’amministrazione avrebbe applicato una tassa del 10% su tutte le importazioni e tariffe più elevate per i Paesi con i deficit commerciali più significativi, sono emerse numerose domande. Ad esempio, perché il Vietnam, un Paese che gli Stati Uniti hanno cercato di avvicinare negli ultimi anni per contrastare la Cina nella regione, è stato colpito da una tariffa del 46%? E perché i prodotti sudcoreani sono soggetti a una tariffa del 25%, mentre Taiwan, la Svizzera e l’Indonesia hanno rispettivamente il 32%, il 31% e il 32%?

The formula the White House posted. Photo: Handout

The formula the White House posted. Photo: Handout

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