L’uso di programmi automatizzati per addestrare i modelli di intelligenza artificiale sta mettendo a dura prova la stabilità di internet. In un nuovo report della società di sicurezza informatica Barracuda Networks, gli esperti evidenziano l’ascesa dei ‘bot grigi’, software che circolano sul web per estrarre informazioni da siti e applicazioni anche per addestrare l’intelligenza artificiale generativa.

Donne, algoritmi e pane raffermo: la rivincita del cervello femminile nella Silicon Valley d’Oriente
Nel contesto di una società che celebra la tecnologia come nuovo oracolo, la figura della donna nelle discipline STEM continua a essere sottorappresentata, troppo spesso relegata a ruolo decorativo nei panel aziendali o strumentalizzata nelle campagne pubblicitarie dall’inconfondibile retrogusto di marketing rosa. Il problema non è solo quantitativo, ma profondamente culturale: la matematica, l’ingegneria, la scienza e la tecnologia sono ancora percepite come territori maschili per eccellenza, dove la presenza femminile viene vista come un’eccezione statisticamente tollerabile ma raramente valorizzata.
Eppure, in spazi di innovazione come l’Hong Kong Science and Technology Park, esiste una generazione di professioniste che non chiede inclusione, la impone. Figure come Florence Chan, Angela Wu, Wendy Lam, Gina Jiang e Megan Lam, Inhwa Yeom incarnano un nuovo paradigma: quello della competenza femminile che non solo compete, ma supera. Il loro lavoro è sintesi tra eccellenza accademica e applicazione pratica, tra rigore scientifico e intuito strategico, in una costante tensione verso la risoluzione di problemi complessi che spaziano dalla biomedicina alla neurotecnologia.

Nel teatro sotterraneo della nuova corsa globale agli armamenti, la protagonista silenziosa è l’intelligenza artificiale. Ma non parliamo di Terminator o Skynet: parliamo di righe di codice, modelli linguistici, e una guerra ideologica tra ciò che è chiuso, proprietario, controllato… e ciò che invece è libero, aperto, trasparente. Nella cornice poco neutrale del Singapore Defence Technology Summit, si è scoperchiato un vaso di Pandora che molti nei corridoi del potere preferivano restasse chiuso.
Rodrigo Liang, CEO di SambaNova Systems, ha lanciato una verità che è quasi un’eresia per i sostenitori del closed-source militare: pensare che rendere un modello chiuso lo renda anche sicuro è un’illusione di controllo. Perché chi davvero vuole accedere a un modello, lo farà comunque. È una questione di risorse, non di etica. E questo mette in crisi l’intero teorema su cui si basano le restrizioni all’open source in ambito difensivo.

Nel secondo semestre del 2024, i cyberattacchi crescono del +28,3%, nonostante il calo delle gang attive. AI, phishing realistici e Malware-as-a-Service ridisegnano il panorama delle minacce globali. L’Italia resta un obiettivo strategico.

L’AI non è né buona né cattiva, è semplicemente lo specchio di chi l’ha addestrata. E in ambito sviluppo software, questo significa che riflette l’incompetenza generalizzata dell’umanità moderna nel saper scrivere codice decente. Potremmo raccontarcela con toni più politically correct, ma la realtà resta brutale: la maggior parte del codice che gira online fa schifo. E siccome l’AI è un animale statistico, imparando da quella spazzatura, finirà inevitabilmente per riproporla. Benvenuti nell’età dell’automazione della mediocrità.
Quando parliamo di “bad code”, non ci riferiamo solo a codice che non compila. Quello è il male minore. Parliamo di codice che compila, gira, funziona, ma che è un disastro da leggere, estendere, manutenere o semplicemente capire. Codice privo di coerenza architetturale, senza test, pieno di hardcoded, di if
annidati come le matrioske dell’orrore, di nomi di variabili che sembrano partoriti da uno scimmione bendato: foo
, temp
, x1
, y2
. E se credi che questi esempi siano caricature, fai un giro nei repository pubblici di GitHub. Vedrai orrori che farebbero piangere un compilatore.

L’industria finanziaria, per anni paralizzata dalla sindrome dell’eccesso di cautela regolatoria, ha finalmente rotto gli argini. Da timorosa osservatrice a protagonista entusiasta, ha deciso di buttarsi nella piscina stavolta profonda – dell’intelligenza artificiale generativa. Moody’s, con la sobrietà americana che la contraddistingue, lo conferma: il settore finanziario è pronto a flirtare sul serio con la GenAI, e i numeri parlano chiaro.
Secondo Statista, nel 2023 il settore ha investito 35 miliardi di dollari in AI, cifra destinata a quadruplicarsi entro il 2028 raggiungendo i 126,4 miliardi. Non stiamo parlando di esperimenti da laboratorio, ma di un nuovo modello operativo in cui le macchine smettono di suggerire per iniziare a decidere.

Sembra un episodio apocrifo di Black Mirror, ma è semplicemente la realtà: le AI più avanzate del mondo, quelle che promettono di rivoluzionare tutto, dalla medicina all’economia, non riescono a giocare a Doom. Non scherzo. GPT-4o, Claude Sonnet 3.7, Gemini 2.5 Pro… tutti col cervello da Nobel, ma con riflessi da bradipo ubriaco quando si trovano davanti ai demoni digitali dell’iconico sparatutto in prima persona.
Giovedì scorso, Alex Zhang, ricercatore in AI, ha presentato VideoGameBench, un benchmark pensato per mettere alla prova i modelli visivo-linguistici (VLM) su un terreno che li umilia: venti videogiochi storici, tra cui Warcraft II, Prince of Persia e Age of Empires. L’obiettivo? Capire se questi modelli riescono non solo a “vedere” e “descrivere” il gioco, ma anche a giocarlo con una parvenza di intelligenza.

Nel cimitero degli wearable AI, tra i resti del Humane AI Pin e il semi-congelato Rabbit R1, spunta un oggetto dalle dimensioni di un dollaro d’argento che non ha la minima intenzione di farsi notare per lo scintillio del marketing, ma per la sostanza. Si chiama OmiGPT, e la sua promessa è tanto modesta quanto potenzialmente devastante: un assistente ChatGPT al polso (o al collo) per meno di un centinaio di dollari.
Sì, hai letto bene. Mentre le Big Tech giocano alla “fantascienza per ricchi” con gadget da 699 dollari in su, una startup di San Francisco ha scelto la via spartana, realista e brutalmente ingegneristica. Dietro a questa creatura hi-tech c’è Nik Shevchenko, che non vuole venderti un sogno, ma qualcosa che userebbe lui stesso, se non altro per non doversi più portare appresso uno smartphone anche solo per salvare una conversazione.

Chi avrebbe mai detto che il futuro dei video generati dall’intelligenza artificiale avrebbe preso forma su un desktop da gaming? E invece eccoci qui: FramePack, la nuova architettura neurale firmata Lvmin Zhang (con la benedizione di Maneesh Agrawala da Stanford), è il perfetto esempio di quando la potenza di calcolo incontra l’intelligenza progettuale. Il risultato? Video AI da un minuto intero, di qualità notevole, sfornati su una GPU casalinga con appena 6GB di VRAM. Hai presente quelle workstation che sembravano necessarie per l’IA generativa? Dimenticale.
Il trucco non sta nella forza bruta, ma nell’ingegno algoritmico. FramePack reinterpreta la struttura della memoria nei modelli di diffusione video. Invece di accumulare informazioni temporali come un collezionista compulsivo di fotogrammi, li impacchetta in un contesto temporale a lunghezza fissa, ottimizzando il processo come un camionista zen che fa incastrare perfettamente i bagagli nel portabagagli. Questo riduce drasticamente il carico sulla GPU, permettendo di lavorare con modelli da 13 miliardi di parametri senza mandare in fumo la scheda video. Secondo gli autori, il costo computazionale è simile a quello della generazione di immagini statiche. E qui si sente già il tonfo delle vecchie soluzioni cloud, cadute rovinosamente dal loro piedistallo.

La maratona dei robot umanoidi, tenutasi a Pechino il 19 aprile 2025, ha messo in evidenza tanto l’innovazione quanto le sfide ancora da superare nella robotica cinese. Questo evento ha rappresentato il primo tentativo di un “mezzomarathon” con robot in competizione al fianco degli esseri umani, ma, come spesso accade con le tecnologie emergenti, non è stato privo di difficoltà. Dei 21 partecipanti robotici, solo sei sono riusciti a completare la corsa, e solo uno ha concluso sotto il tempo minimo di qualificazione stabilito dalla Chinese Athletic Association.
La maratona, lunga 21 km e tenutasi nel distretto di Yizhuang, ha visto una scena che ha evocato il primissimo Gran Premio automobilistico del 1894 a Parigi, quando le automobili erano ancora un sogno rispetto ai carri trainati dai cavalli. Il parallelo con le prime gare automobilistiche è inevitabile, poiché anche in questo caso il futuro della mobilità era ancora in fase di definizione, nonostante la visione ambiziosa di chi, come la Cina, vuole essere all’avanguardia nel campo della robotica umanoide. La partecipazione di robot alla gara è stata vista come una vetrina della crescente potenza della Cina in questo settore, che compete direttamente con colossi come Boston Dynamics e Tesla, che sta sviluppando il robot umanoide Optimus.

La ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, e il ministro della Scienza e della Tecnologia della Repubblica dell’India, Jitendra Singh, hanno firmato un Memorandum of Understanding per rafforzare la cooperazione bilaterale nel campo della ricerca scientifica e tecnologica tra i due Paesi.

Nel silenzio rotto solo dal suono dei tasti e dai grafici di produttività, un nuovo paradigma si consolida nel cuore pulsante della corporate economy globale: l’intelligenza artificiale non è più una tecnologia da laboratorio, è una manodopera da trincea. E soprattutto, è una manodopera che non sciopera, non chiede ferie, non si ammala e non organizza sindacati. Da PayPal a EY, passando per Meta, Pinterest e l’intera Silicon Valley, si assiste a una mutazione darwiniana dove il lavoratore umano è una specie in via d’estinzione, rimpiazzata da algoritmi affamati di dati e GPU a 5 cifre.

La narrativa trionfale che ha accompagnato la rielezione di Donald Trump si sta sbriciolando sotto il peso delle aspettative mancate. L’ultimo sondaggio economico nazionale CNBC All-America fotografa un Paese più cupo, deluso e (cosa ancora più letale in politica) impaziente. Il consenso economico nei confronti del presidente ha toccato i livelli più bassi del suo secondo mandato, segnando un’inversione di rotta drammatica rispetto all’impennata di ottimismo che aveva accompagnato la sua riconferma. Con un approvazione economica al 43% e un netto 55% di disapprovazione, Trump entra ufficialmente nella zona rossa della fiducia pubblica, per la prima volta anche sul tema economico, da sempre il suo cavallo di battaglia.
Il dato più preoccupante per la Casa Bianca non è tanto la resistenza della base repubblicana, che regge, quanto la frattura profonda con gli indipendenti e l’ostilità feroce dei democratici. Tra questi ultimi, la disapprovazione netta sulle politiche economiche di Trump ha raggiunto il -90, un abisso politico mai visto nemmeno durante il primo mandato. E anche tra i lavoratori blue collar, una delle colonne portanti del trionfo trumpiano del 2024, il supporto mostra crepe evidenti: sì, ancora positivi nel complesso, ma con una crescita di 14 punti nei tassi di disapprovazione rispetto alla media del primo mandato. Il tempo della gratitudine è finito, ora si pretende il dividendo.

Col termine “Zhuazhou” (抓周)si indica una cerimonia tradizionale cinese che si tiene il giorno del primo compleanno per celebrare la crescita dei bimbi e augurargli tanta prosperità. Da quest’autunno al compimento del 6 anno, i bambini di Pechino inizieranno il loro percorso scolastico con qualcosa di più del solito abbecedario: l’intelligenza artificiale. E no, non si tratta di semplici giochini educativi per stimolare la mente, ma di un curriculum vero e proprio che comprende l’uso di chatbot, le basi dell’etica dell’AI, e l’impatto sociale delle tecnologie emergenti. In pratica, mentre in Europa ci si scanna ancora sul divieto dei cellulari in classe, la Cina sta insegnando a bambini delle elementari come interagire consapevolmente con ChatGPT.

Mentre gli spettatori meno attrezzati emotivamente si struggono per le sorti dei protagonisti, tra abbracci digitali e intelligenze artificiali con più empatia di uno psicoterapeuta abilitato, i veri appassionati — quelli col badge da sviluppatore e il cronogramma di release di OpenAI stampato sopra la scrivania sanno benissimo che il cuore della settima stagione di Black Mirror non è la distopia. È la roadmap.
Charlie Brooker non inventa il futuro. Lo interpreta sei mesi prima che qualcuno lo carichi su GitHub. Ogni episodio di questa nuova stagione è una riflessione, neanche troppo velata, su tecnologie già esistenti, alcune delle quali in fase di testing in laboratori pubblici e privati. Di seguito, un’analisi giornalistica dettagliata, senza fronzoli narrativi e con lo sguardo cinico di chi sa che la distopia è un business scalabile.

L’ultima trovata della Commissione Europea si chiama AI Continent Action Plan e, se la retorica dovesse corrispondere alla realtà, ci troveremmo già nel pieno della seconda rivoluzione industriale digitale, made in Europe. Henna Virkkunen, eurodeputata finlandese e voce tra le più entusiaste, ha dichiarato che “L’intelligenza artificiale è il cuore della competitività, della sicurezza e della sovranità tecnologica dell’Europa.” Fa effetto, certo. Ma l’entusiasmo istituzionale è spesso inversamente proporzionale all’esecuzione pratica delle politiche UE.
Il piano, presentato il 9 aprile 2025, mira a cavalcare l’ondata AI per trasformare un’Unione lenta, divisa e normativamente labirintica in un “leader globale” nel settore. L’ambizione è tanta, ma la realtà è, come sempre, più intricata. La Commissione tenta di poggiare il suo piano su cinque pilastri: infrastrutture computazionali, accesso a dati di qualità, sviluppo di algoritmi e adozione strategica, formazione di talenti e guarda un po’ semplificazione normativa.

Se c’è un settore dove l’Europa ha storicamente arrancato — tra proclami vaghi e mille “strategia comuni” mai implementate — è proprio la cybersicurezza. Troppa frammentazione, troppe gelosie nazionali, troppi piani che si fermavano alla slide. Ma nel 2023 qualcosa è cambiato. E stavolta non si tratta solo di un fondo da annunciare a Davos.
Parliamo di 27 Centri Nazionali di Coordinamento per la Cybersicurezza, uno per ogni Stato Membro UE. Non centri “di facciata” piazzati in qualche capoluogo per dare una carezza alla politica locale, ma strutture operative, tecniche, integrate in una rete continentale che punta a un obiettivo tanto ambizioso quanto necessario: la difesa digitale coordinata e distribuita.

Il Digital Europe Programme, come lo chiama Bruxelles in uno slancio di creatività anglofona, è l’ennesima colata di miliardi che l’Unione Europea decide di investire per scrollarsi di dosso l’etichetta di vecchia zia lenta della trasformazione digitale. È stato pensato per rendere l’Europa meno dipendente dai cugini americani (Big Tech) e meno vulnerabile alle grinfie digitali di chi, come la Russia, ha capito prima e meglio come si combattono le guerre anche nei cavi di rete.
Parliamo di un pacchetto da oltre 8,1 miliardi di euro, già stanziati all’interno del bilancio pluriennale 2021-2027. Roba seria, in teoria. In pratica, stiamo cercando di correre dietro a un treno che è già passato. Il programma si concentra su cinque aree strategiche: supercalcolo, intelligenza artificiale, cybersicurezza, competenze digitali avanzate e diffusione massiva delle tecnologie digitali, anche e soprattutto tra le PMI e le pubbliche amministrazioni. Esattamente quei settori dove l’Europa ha sempre balbettato tra mille progetti pilota e piani strategici con acronimi inquietanti.
Key Figures. / The DIGITAL Dashboard / Programme in a Nutshell

Se pensavate che l’eSport fosse solo un passatempo per adolescenti nerd con troppo tempo libero, preparatevi a rivedere i vostri pregiudizi. Hero Esports, colosso cinese del gaming competitivo sostenuto dalla colossale ombra finanziaria di Tencent Holdings e dal muscoloso capitale saudita del fondo Savvy Games Group, ha appena deciso che l’unico modo per vincere davvero è giocare d’anticipo. E lo fa con l’arma più potente del momento: l’intelligenza artificiale.
Lo ha detto chiaramente Danny Tang, co-fondatrice e CEO di Hero Esports, in un’intervista che più che una dichiarazione strategica sembra un manifesto per la conquista dell’intera industria: “Stiamo testando diversi modelli di AI, incluso DeepSeek, in ogni area del business”. Tradotto: dal controllo qualità alla produzione dei contenuti, dall’analisi legale fino al modo in cui si muove la camera durante un torneo di PUBG (PlayerUnknown’s Battlegrounds Videogioco), tutto viene analizzato, ottimizzato, reinventato dalla macchina.

La notizia ha un suono familiare, ma stavolta c’è una sfumatura inedita: la Food and Drug Administration americana ha appena concesso la designazione di “breakthrough device” al modello AI per la diagnosi del cancro sviluppato da Alibaba, noto come Damo Panda. E no, non è uno scherzo: un colosso tecnologico cinese, spesso sotto tiro per questioni geopolitiche e cybersicurezza, ottiene un timbro di eccellenza da parte dell’ente regolatore sanitario più influente al mondo. Questo, più che un’apertura, sa tanto di resa strategica: l’intelligenza artificiale, ormai, parla mandarino anche nel cuore del biomedicale USA.
Damo Panda è un modello deep learning pensato per scovare il cancro al pancreas nelle sue fasi iniziali, quelle che i radiologi umani spesso si perdono, soprattutto se il paziente non ha ancora sintomi. Lo fa elaborando immagini da TAC addominali non contrastografiche, una sfida clinica e computazionale niente male. Allenato su una base dati di oltre tremila pazienti oncologici, Panda ha dimostrato di battere i radiologi in sensibilità diagnostica del 34,1%. E non stiamo parlando di un benchmark simulato: in Cina ha già operato su 40.000 casi reali presso l’ospedale di Ningbo, individuando sei tumori pancreatici in fase precoce, di cui due erano sfuggiti completamente alle analisi umane. Un colpo basso alla medicina difensiva e ai cultori della seconda opinione.

Nel nuovo rapporto di OpenAI, emerge un quadro chiarissimo e, per certi versi, disturbante per chi ancora si ostina a trattare l’IA come un giocattolino futuristico da laboratorio R&D. Sette aziende leader hanno fatto il salto quantico, adottando l’intelligenza artificiale come leva strategica e non come orpello da PowerPoint. E non parliamo di storytelling da conferenza, ma di risultati misurabili, concreti, da bilancio trimestrale. Quello che le accomuna? Nessuna si è limitata all’hype. Hanno trattato l’IA con la stessa serietà con cui un CFO tratta il debito a lungo termine.
Morgan Stanley ha aperto le danze mostrando che il rigore paga. Ha scelto di partire da valutazioni serrate, modello per modello, caso d’uso per caso d’uso. Niente romanticismi tecnofili: ciò che funziona resta, ciò che non performa si taglia. Questo approccio chirurgico ha permesso alla banca d’investimento di usare l’IA come moltiplicatore della conoscenza interna, in modo affidabile e scalabile. Tradotto: meno tempo perso tra documenti, più risposte in tempo reale, e soprattutto meno consulenze esterne. In un mondo in cui il valore dell’informazione si misura in millisecondi, questo non è un miglioramento, è un’arma.

Non è un saggio tecnico, né un pamphlet ideologico: Genesi è un avvertimento. È un Kissinger lucido, anziano e quasi profetico che guarda l’intelligenza artificiale non con la curiosità del boomer che prova ChatGPT, ma con la diffidenza dello stratega che ha capito che qualcosa, stavolta, è cambiato per davvero. Firmato insieme a Eric Schmidt, ex CEO di Google, e Craig Mundie, cervello di Microsoft, il libro è la cronaca di un’era che si chiude e di un’altra che inizia con una domanda scomoda: siamo davvero ancora noi a decidere?
L’inizio è una bomba epistemologica. Non stiamo parlando di uno strumento. L’IA non è più una leva che l’uomo usa per sollevarsi, ma una forza autonoma che ridefinisce ciò che intendiamo per verità, conoscenza, realtà. È un’entità che non sente, non teme, non si stanca. Una macchina senza morale, che diventa paradossalmente più efficiente proprio perché le manca quel freno invisibile che chiamiamo coscienza.

Partiamo da una verità tanto banale quanto ignorata: lavorare con modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) non è difficile perché sono “intelligenti”, ma perché sono imprevedibili, opachi, e spesso capricciosi come artisti in crisi creativa. E allora il vero mestiere non è più scrivere codice, ma costruire impalcature solide dove questi modelli possano “giocare” senza mandare tutto a fuoco.
Quando si mettono le mani su progetti che orchestrano più provider LLM, stratificazioni di prompt engineering, dati che scorrono come fiumi impazziti e team distribuiti tra dev, ML engineer e product owner, l’unica ancora di salvezza è una struttura progettuale ferrea, cinicamente modulare e brutalmente trasparente.
Se mai avevate bisogno di una prova che il futuro non arriverà su ruote, ma su due gambe artificiali, la mezza maratona di Pechino dedicata ai robot umanoidi dovrebbe bastare. Il Tien Kung Ultra, un androide alto 180 cm e pesante 55 kg, ha completato i 21 km in circa 2 ore e 40 minuti, conquistando non solo il primo posto nella corsa, ma anche l’attenzione del mondo. Dietro questa impresa si muove un’ambizione più grande di una semplice vittoria sportiva: diventare l’Android degli umanoidi, l’ossatura software open source sulla quale far camminare e correre la futura intelligenza artificiale incarnata.
Nella silenziosa ma serrata corsa globale per la supremazia nell’aeronautica militare del futuro, la Cina ha deciso di rompere il silenzio con una manovra coreografata degna del miglior teatro geopolitico. Il 26 dicembre, giorno del compleanno di Mao Zedong un dettaglio che nessun regista avrebbe potuto ignorare le immagini di un nuovo caccia cinese hanno cominciato a circolare online. Un’uscita pubblica non casuale, che punta a mandare un messaggio preciso: la Cina è qui, pronta, e sta accelerando.
Le foto e i video mostrano un velivolo sperimentale, battezzato J-36, in volo sopra Chengdu, affiancato da un J-20, il cavallo di battaglia di quinta generazione del Dragone. Ma è la configurazione a tre motori ad aver scatenato i dibattiti più accesi. Tre motori in un caccia non si vedono dai tempi in cui il termine “stealth” era ancora un neologismo e non una buzzword usata da ogni startup di droni agricoli.
Se guardiamo con l’occhio da Technologist smaliziato e non da entusiasta da salone dell’aeronautica, il cuore della sesta generazione non è tanto la velocità o la furtività che ormai sono commodity – quanto l’integrazione massiva con sistemi autonomi, sensor fusion e, soprattutto, crew-uncrewed teaming.

Oggi l’adozione dell’intelligenza artificiale non è più una questione di “se” ma di “come”. Ecco il punto: il vero grattacapo per le aziende non è tanto capire se usare l’AI, ma individuare quei casi d’uso in grado di generare valore reale, concreto, misurabile. Il resto è vetrina per board meeting e slide da consulenti con troppo tempo libero.
Viviamo un’epoca in cui ogni impresa, dal colosso industriale alla startup con il pitch (elevator) in tasca, proclama di “integrare soluzioni di AI”. Peccato che dietro il buzzword o le bullshits si nascondano spesso progetti pilota che restano confinati in sandbox accademici o POC eterni che non scalano mai. Perché? Perché manca strategia, leadership, capacità di distinguere l’automazione utile dal fumo algoritmico.

L’universo. Quel posto affascinante e inospitale che da miliardi di anni si diverte a produrre galassie, stelle, frittate e imprenditori tech. Secondo una nuova teoria, potrebbe esserci un principio universale che spinge tutto, vivente o meno, a diventare sempre più complesso. Non per scelta, non per gusto estetico, ma perché è nella natura stessa della realtà. E no, non è una provocazione filosofica da bar: parliamo di fisica teorica, quella che solitamente vive sospesa tra il sublime e l’indimostrabile.
La provocazione è elegante: esiste una sorta di freccia del tempo della complessità, un’evoluzione non solo biologica, ma sistemica, strutturale, cosmica. Se i sistemi complessi tendono a diventare ancora più complessi col tempo, allora l’evoluzione della vita è solo una manifestazione locale e parziale di un principio molto più ampio. Non è darwinismo, è cosmologismo.

Costruire una REST API che non faccia schifo è un’arte sottile. È come servire whisky d’annata in un bicchiere di plastica: anche se il contenuto è buono, l’esperienza crolla. E in un’era in cui ogni microservizio, SaaS o IoT toaster parla con un altro pezzo di software, la tua API è l’interfaccia diplomatica del tuo sistema. Mal progettata, diventa una dichiarazione di guerra.
Cominciamo da un classico che sembra semplice ma viene ignorato come le istruzioni del microonde: gli HTTP status code. Non è una tavolozza a caso. Restituire 200 OK
per ogni chiamata è l’equivalente digitale di annuire mentre ti sparano. Se il client sbaglia, diglielo con un 400
. Se sei tu a esplodere, abbi il coraggio di un 500
. Non mascherare il malfunzionamento con falsi successi, o ti ritroverai con un client che balla sul Titanic.

L’intelligenza artificiale non solo macina dati, ma anche chilowattora. A confermarlo è l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), che nel suo primo rapporto dedicato al rapporto tra AI ed energia, lancia l’allarme: entro il 2030 i data center consumeranno più elettricità dell’intero Giappone, toccando i 945 TWh. Una cifra che evidenzia come l’espansione dell’AI, oltre a rivoluzionare business e processi, stia mettendo a dura prova le infrastrutture energetiche globali.
Imparare l’AI oggi è come trovarsi negli anni ‘90 con Internet: se ti muovi adesso, sei in anticipo. Se aspetti, diventi un consumatore di ciò che gli altri creeranno. Ma la differenza sostanziale è che l’AI non è un trend: è un paradosso darwiniano digitale. O la domini, o ne sei dominato. Ecco perché, se vuoi diventare davvero fluente nel linguaggio dell’intelligenza artificiale non la buzzword da conferenza, ma quella che cambia le tue decisioni di business, sviluppo o carriera servono fonti giuste, accessibili, dirette. Nessun bullshit motivazionale, solo contenuto vero.
Qui sotto trovi gli i canali YouTube imprescindibili per chi parte da zero ma punta a comprendere anche i white paper più ostici, e una selezione di blog dove la crème della ricerca pubblica senza troppi filtri.

AML, KYC e KYB compliance
OpenAI ha annunciato che d’ora in poi le organizzazioni che vogliono accedere ai suoi modelli più avanzati dovranno passare per un processo di verifica d’identità. Non si parla di una banale registrazione con email aziendale: si entra nel regno del riconoscimento facciale e del documento ufficiale rilasciato dal governo. Sì, quello con la foto brutta.
Perché? Perché OpenAI, come ogni buon colosso tecnologico che ha finalmente capito che i giocattoli che ha messo al mondo possono essere usati non solo per creare poesie d’amore per gatti, ma anche per scenari meno Disney, ha deciso di mettere le mani avanti. O, meglio, di mettere un bel tornello all’ingresso.

Certe storie sembrano uscite da un racconto distopico, ma quando la realtà si traveste da narrativa, il paradosso non fa più ridere. Anzi, suona beffardo. L’ultima perla arriva dal Giappone, patria della tecnologia e della disciplina creativa, dove Rie Qudan, fresca vincitrice dell’ambitissimo Akatugawa Prize (premio letterario che in terra nipponica vale quanto un Nobel in miniatura), ha candidamente confessato che buona parte del suo romanzo premiato “Tokyo-to Dojo-to” è stato scritto a quattro mani con ChatGPT. Nessun ghostwriter umano, nessun tirocinante sottopagato: a farle compagnia nel viaggio creativo è stata l’intelligenza artificiale generativa.

Con un colpo di scena in stile open-source, la Wikimedia Foundation ha deciso di affrontare di petto uno dei problemi più spinosi dell’era AI: il sovrasfruttamento dei contenuti da parte degli scraper automatizzati. Lo fa non chiudendo, ma aprendo meglio: nasce così un dataset pensato appositamente per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale.

Nel 2023 ci siamo ubriacati con il concetto di prompt engineering, quella pratica un po’ feticista di incartare un modello LLM come se fosse una caramella magica, sperando che un prompt ben costruito potesse trasformare un pappagallo probabilistico in una creatura senziente e autonoma. Il 2024 ha visto i primi sobbalzi di coscienza. Ma è nel 2025 che si consuma il passaggio di fase: da artigiani della parola a veri AI system architects.
L’intelligenza agentica non è un’estensione del prompt, ma un cambio di paradigma. Un salto da una UI testuale a un runtime cognitivo. Chi continua a insistere sul wrapping dei prompt dimostra di non aver capito il punto. Un agente non è una sequenza di istruzioni ma un organismo computazionale capace di percepire, pianificare, agire e apprendere.

Nel cuore dimenticato della provincia del Guangdong, c’è un villaggio che fino a pochi mesi fa non esisteva nemmeno su Google Maps.Si chiama Mililing, 700 persone, un nome che suona come una ninna nanna contadina, ma che oggi è diventato un pellegrinaggio tech grazie a un uomo che non vuole farsi fotografare: Liang Wenfeng, 40 anni, mente dietro DeepSeek, la startup cinese che ha scompigliato le carte dell’intelligenza artificiale mondiale.


Nel mondo dell’intelligenza artificiale, dove la corsa all’hype è più serrata di quella alle misure di sicurezza, OpenAI ha recentemente aggiornato il suo Preparedness Framework. Un’iniziativa che, almeno sulla carta, dovrebbe garantire che i rischi legati allo sviluppo e alla distribuzione dei loro modelli rimangano sotto un livello accettabile. Ma come ogni comunicato ben confezionato, anche questo odora più di mossa PR che di reale strategia di contenimento.
OpenAI ora utilizza cinque criteri per decidere quando una capacità dell’AI debba essere trattata con anticipo. Un sistema di valutazione che pare uscito da un manuale di risk management aziendale: se una capacità può causare danni seri, se questi sono misurabili, peggiori rispetto al passato, rapidi e irreversibili, allora finisce sotto la lente. In teoria sembra sensato. Nella pratica, è una formula che lascia tutto all’interpretazione: chi decide cosa è “plausibile”? Chi misura il “significativamente peggiore”? Un framework che si presta troppo facilmente alla flessibilità narrativa del momento.

Mentre l’Occidente si distrae con il teatrino della politica interna e i mercati annaspano tra trimestrali tiepide e annunci fumosi sull’IA, Goldman Sachs decide di mandare in trasferta i suoi analisti più svegli per vedere con i propri occhi cosa sta bollendo nella pentola asiatica. Il risultato? Un vero schiaffo morale a Silicon Valley e Washington D.C.: la Cina è avanti. Di brutto. E non solo in un settore, ma in un ecosistema industriale che copre tutto, dai chip fotonici agli eVTOL, passando per robotaxi, server AI, e smartphone dal design impietosamente competitivo.
Il Private Tech Tour 2025 di Goldman è una sorta di via crucis high-tech da Shanghai a Shenzhen, con tappa a Guangzhou, durante il quale i cervelloni della banca d’investimento incontrano 19 aziende selezionate in otto settori critici. Ma la vera notizia non è l’elenco – peraltro interessante – delle società visitate. La notizia è che Goldman torna con un messaggio chiaro: l’Asia, e in particolare la Cina, non sta più inseguendo. Sta guidando. E non ha intenzione di aspettare che l’Occidente si svegli.

Il mondo della tecnologia sta vivendo un’evoluzione profonda e, forse, inevitabile. C’è un movimento crescente che spinge verso la re-distribuzione dei fondi e delle risorse, dove la ricerca di base, quella che ha storicamente permesso alla scienza di progredire, è progressivamente messa da parte a favore di tecnologie più pratiche e già pronte per il mercato. Questo non è semplicemente un cambiamento nei paradigmi di sviluppo, ma un vero e proprio spostamento verso una mentalità più orientata al profitto, con implicazioni che potrebbero essere, se non dannose, almeno molto rischiose per la ricerca stessa.
Lo abbiamo visto con i colossi tecnologici come Google e Meta, i quali, una volta pionieri nella promozione della ricerca accademica, sembrano ora adottare una politica più conservativa e commerciale. Google DeepMind, ad esempio, ha fatto passi indietro rispetto alla tradizione di apertura e condivisione della conoscenza.
Negli ultimi anni, i ricercatori di DeepMind hanno sempre più esitato a pubblicare i loro risultati, per evitare di offrire vantaggi competitivi ai rivali nel settore della IA. La concorrenza è feroce, e, piuttosto che puntare a contribuire al bene pubblico, l’azienda sembra preferire strategicamente la protezione del suo vantaggio tecnologico. Questo movimento non è isolato, e si riflette anche nel modo in cui Meta ha recentemente ridotto la priorità per la ricerca fondamentale nell’ambito dell’intelligenza artificiale, come evidenziato dal declino della sua iniziativa FAIR (Fundamental AI Research). Le risorse, che in passato erano destinate all’esplorazione teorica e a progetti di ricerca di lungo termine, sono ora indirizzate verso la creazione di strumenti generativi di intelligenza artificiale che rispondono alle esigenze immediate del mercato.

Seeweb,Nel circo globale dell’intelligenza artificiale, dove le major tech americane si combattono a colpi di modelli chiusi, GPU affamate e NDA degne della CIA, ogni tanto spunta qualcuno che osa dire: “Ehi, e se facessimo le cose in modo aperto, sostenibile e soprattutto, europeo?”. Ecco, quel qualcuno si chiama Seeweb, e la risposta si chiama Regolo.ai.
Il 14 aprile 2025, senza troppa fanfara da palcoscenico ma con parecchia sostanza, Seeweb ha lanciato ufficialmente Regolo.ai: una piattaforma di inference AI pensata per sviluppatori veri, non per guru da keynote. Niente slogan vuoti, ma un’infrastruttura AI full-stack, pronta all’uso, basata su API leggere e modelli performanti. Il tutto cucinato in casa da un team che non ha bisogno di comprare hype a Wall Street, perché gioca in casa nel gruppo DHH, già quotato e ben radicato nell’ecosistema digitale europeo.
Qui non si parla di un altro “tool per la productivity” o di un “assistente AI personale” con nomi da astronave. Regolo.ai è una ferramenta digitale per sviluppatori: ti dà accesso a tutto il ciclo di vita del modello, dall’addestramento all’inferenza, senza dover perdere mesi a configurare GPU o a capire se il tuo provider americano ti sta leggendo i log.

McKinsey, lancia una provocazione che dovrebbe far saltare dalla sedia chiunque occupi una stanza con più di tre monitor: la domanda fondamentale non è se usare l’intelligenza artificiale, ma quanto velocemente sei capace di riscrivere la tua azienda per sopravvivere nel nuovo ordine algoritmico. Sì, perché l’ondata degli AI agents non è solo un’ulteriore moda tecnologica, ma un terremoto operativo e strategico che sta riscrivendo le regole del gioco. E non c’è tempo per i nostalgici.
Qui non si parla di chatbot simpatici o assistenti digitali che rispondono alle email. Stiamo entrando in un’era dove gli agenti AI diventano dirigenti silenziosi, capaci di prendere decisioni, ottimizzare processi, negoziare contratti e, soprattutto, agire in autonomia. La trasformazione non è incrementale. È strutturale. Quindi la vera domanda è: la tua azienda ha il fegato, il codice e la cultura per tenere il passo?