Immaginate uno sviluppatore un po’ distratto, a fine giornata, che committa una pull request con dentro una bella vulnerabilità da manuale. Non una di quelle eleganti e sofisticate, ma una semplice, brutale, banale SQL injection. Un errore da principiante. Succede, sempre più spesso. Succede anche ai migliori. Perché la fretta è il nuovo default e il ciclo di sviluppo moderno ha trasformato il concetto di “revisione del codice” in una cerimonia simbolica. Benvenuti nell’era dell’illusione del controllo.
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Claude Code è interessante. Ma ciò che conta davvero è come lo usi, non se lo hai installato.
Nel gergo della Silicon Valley, qualcuno potrebbe chiamarlo un esercito di cloni cognitivi. O una “orchestra di specialisti sintetici”. Ma la verità è che questa architettura, fondata su Claude Code e una directory popolata da file .json e script modulari, è qualcosa di più subdolo: è la materializzazione della promessa non mantenuta del no-code. Solo che stavolta funziona. Non più tool che “semplificano lo sviluppo”, ma operatori digitali che agiscono su comandi astratti. Non più interfacce, ma conversazioni esecutive. È come avere un middle management drogato di API, sempre operativo, mai sindacalizzato.

Claude Code, lo strumento di coding basato su intelligenza artificiale rilasciato da Anthropic. In un solo weekend, ha visto settimane di lavoro ridursi a poche ore, come se il tempo si fosse contratto attorno a me. Non scrivevo codice, lo evocavo.
Questo è il concetto alla base del vibe coding, un termine entrato di recente nel lessico tecnologico grazie a Andrej Karpathy, ex dirigente di OpenAI e Tesla. Il 2 febbraio ha twittato di “un nuovo tipo di coding che chiamo ‘vibe coding’, dove ti abbandoni completamente alle vibrazioni, abbracciando l’esponenzialità dell’AI e dimenticandoti che il codice esista.”
