Sette percento. In una giornata. Per un’azienda come Google, pardon Alphabet, non è un piccolo raffreddore da mercato: è una febbre improvvisa, di quelle che ti costringono a fermarti e domandarti se è solo influenza o l’inizio di qualcosa di più serio. Il tonfo è avvenuto dopo la testimonianza di Eddy Cue, alto dirigente Apple, in un’aula di tribunale a Washington. Cue, con la solennità tipica di chi sa che sta dicendo qualcosa di potenzialmente storico, ha ammesso che per la prima volta in assoluto il volume di ricerca su Safari – dove Google è ancora il motore di default è diminuito. Non rallentato. Non stagnato. Diminuito.
Questa frase, lanciata in aula quasi come una bomba ad orologeria, ha avuto un eco immediato a Wall Street. Il mercato non ama le sorprese, e meno ancora ama i segnali di declino sistemico. Ma il punto è: davvero è una sorpresa?
No. E chi finge che lo sia sta giocando a fare l’ottimista di facciata. Due settimane fa, sempre nella stessa aula, un’altra dirigente di Google, Sissie Hsiao che guarda caso è anche responsabile dell’area AI dell’azienda aveva già ammesso candidamente che ChatGPT stava erodendo le query di ricerca, in particolare quelle legate a compiti scolastici e matematica. Niente di grave, diceva: poca pubblicità, poco rischio. Peccato che a microfoni semi-aperti, il capo della pubblicità Vidhya Srinivasan lasciava cadere l’osservazione che la cannibalizzazione era inevitabile. Altro che compartimenti stagni: il motore della search di Google – la gallina dalle uova d’oro dell’azienda – è sotto pressione, ed è una pressione nuova, differente dalle solite guerre con Bing, DuckDuckGo o altri rivali passati. Qui l’avversario non gioca lo stesso sport. Non va cercato: ti risponde direttamente.
È ChatGPT. O Claude. O Perplexity. O l’AI di turno, che ti dà una risposta invece che linkarti 10 siti sponsorizzati e infarciti di SEO spazzatura. La value proposition della search tradizionale vacilla. E non basta mettere il turbo a Gemini per far finta che non sia così.
E qui entra Eddy Cue con la seconda stilettata. “Tra dieci anni potremmo non aver bisogno di un iPhone”. Non è una provocazione. È il riconoscimento implicito che l’interfaccia dominante lo schermo con le app – potrebbe dissolversi in qualcosa di più invisibile, più onnipresente, più integrato. Non cercheremo più: chiederemo. Non toccheremo: parleremo. Non useremo app: riceveremo risposte.
E mentre Apple si prepara al futuro con il suo Apple Intelligence (che verrà annunciato a giugno con l’ormai inevitabile patina di hype), Google si trova nel paradosso di dover competere con una tecnologia che sta contribuendo a costruire… e che al tempo stesso sta lentamente corrodendo la sua miniera d’oro.
La Search. La pubblicità. Il browser. La trinità profana di Mountain View è sotto attacco. Safari, che per anni ha dirottato utenti iPhone verso Google grazie a un accordo da miliardi di dollari l’anno, ora è un cavallo di Troia: gli utenti restano lì, ma le ricerche calano. Perché l’AI inizia a rispondere senza bisogno di passare da Google. E ogni query in meno è un’impressione pubblicitaria persa. Una monetina in meno nel salvadanaio. Una piccola perdita di potere.
Ironico, no? Google ha colonizzato il web, poi ha provato a diventare il web. Ma ora è l’AI a essere il nuovo web. E Google non ne è l’unico custode.
Siamo solo all’inizio, certo. Ma il segnale è chiaro: il dominio indiscusso di Google sulla ricerca non è eterno. E il mercato, per una volta, se n’è accorto.