Se pensavi che le visite presidenziali servissero a scattare selfie diplomatici e stringere mani sudate sotto il sole del deserto, beh, ti sbagliavi di grosso. Donald Trump — sempre lui, l’inevitabile imprenditore travestito da presidente — ha appena fatto esplodere una pioggia d’oro tra Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti per un totale di oltre 200 miliardi di dollari, lanciando una chiara provocazione a chi pensava che l’America stesse perdendo terreno nel gioco geopolitico globale. E no, non è solo una “photo op”. Qui ci sono motori, aerei, trivelle, data center e gallio. Tanto gallio.
Il cuore pulsante dell’accordo è un investimento da 14,5 miliardi di dollari tra Boeing, GE Aerospace e Etihad Airways, per la fornitura di 28 aerei tra 787 Dreamliner e il nuovo 777X, con motori rigorosamente made in GE. Non è solo una bella notizia per gli appassionati di aviazione, è un’iniezione diretta nell’economia manifatturiera americana, una sorta di pacemaker industriale travestito da ordine commerciale. Il messaggio è chiaro: il cielo del Golfo è blu, ma i profitti sono a stelle e strisce.
E mentre la stampa si affanna a digerire questa notizia, dietro l’angolo arriva la bomba vera: Qatar ha appena firmato il più grande ordine di aerei wide-body della storia con Boeing per 96 miliardi di dollari. In un mercato dove Airbus dominava con l’arroganza del monopolista, la resurrezione del colosso americano sta prendendo la forma di un ruggito, alimentato dal petrodollaro mediorientale. Boeing, che sembrava a un passo dal diventare un case study di Harvard su come non gestire una crisi, ora balla sulla pista come se avesse appena vinto “America’s Got Deals”.
Non bastasse l’aerospazio, ecco che Emirates Global Aluminum mette sul tavolo altri 4 miliardi per costruire un impianto di fusione dell’alluminio in Oklahoma, una delle prime strutture simili in oltre 45 anni negli Stati Uniti. Non solo creazione di posti di lavoro, ma anche un colpo diretto al cuore della supply chain dei minerali critici, quella su cui la Cina ha giocato a scacchi per anni mentre l’Occidente faceva sudoku. A quanto pare, l’America ha deciso di buttare via la matita e tornare a usare il piccone.
Se ancora pensavi che questo viaggio presidenziale fosse un teatrino, tieniti forte: ExxonMobil, Occidental e EOG Resources hanno firmato un accordo da 60 miliardi con ADNOC (la compagnia petrolifera di Abu Dhabi) per espandere la produzione di petrolio e gas naturale. Chi dice che il fossile è morto evidentemente non ha mai letto un bilancio. Qui si tratta di scavare, pompare e incassare. Transizione energetica? Sì, ma con calma, ché prima bisogna spremere bene il barile.
In parallelo, RTX (ex Raytheon) stringe una partnership strategica con gli emiratini su un progetto di estrazione del gallio, materiale critico per semiconduttori e radar. In un mondo dove la guerra non si combatte solo con i missili ma anche con i materiali rari, sapere dove trovare gallio è più importante che sapere dove si trova Kiev sulla mappa. E chi controlla il gallio, controlla il silicio. E chi controlla il silicio… vabbè, ci siamo capiti.
Ovviamente il tech non poteva mancare. Amazon Web Services, e&, e il Consiglio di cybersicurezza degli Emirati lanciano un Sovereign Cloud Launchpad — nome altisonante per dire che costruiranno cloud pubblici, sovrani e, possibilmente, blindati. La Silicon Valley potrebbe anche essere il centro dell’innovazione, ma da qualche anno a questa parte è evidente che il potere computazionale ha bisogno di petrolio, energia e diplomazia autoritaria per espandersi. E l’asse USA-UAE è perfetto per tutto ciò: soldi, risorse, autorità e un pizzico di libertà condizionata.
Qasi dimenticavo: Qualcomm allarga il proprio footprint globale con partnership con ADIO e e&. Per chi si chiedesse a cosa serva, la risposta è semplice: mettere un piede nella sandbox mediorientale dell’innovazione prima che lo faccia qualcun altro — magari con occhi a mandorla e passaporto rosso.
Il quadro generale è cristallino per chi sa leggere tra le righe. Non è un semplice pacchetto commerciale. È una dichiarazione d’intenti: gli Stati Uniti non stanno solo cercando nuovi mercati, stanno ridisegnando i confini delle alleanze strategiche attraverso energia, tecnologia e manifattura. La Cina? Presente, certo. L’Europa? In modalità buffering.
La geopolitica del 2025 non si scrive con le sanzioni, si scrive con i contratti, le turbine e i data center. E se serve, anche con qualche gallio in più.
Diceva un vecchio tecnico della Boeing: “Quando un 777X decolla, anche Wall Street si alza in piedi”. E oggi, con 200 miliardi firmati a penna presidenziale, sembra proprio che abbiano messo il turbo anche alla geopolitica.