BBC Inizia come un sussurro, una nota stonata. Poi diventa un boato. Elton John, l’ultima rockstar d’altri tempi ancora in grado di incendiare i riflettori del potere, accusa apertamente il governo britannico di furto. Non è una metafora da copertina Rolling Stone, ma un’accusa precisa: il nuovo disegno di legge sull’uso dei dati per l’intelligenza artificiale sarebbe “criminale”. Il motivo? Vuole legalizzare l’uso indiscriminato di opere protette dal copyright da parte delle Big Tech, per addestrare i loro modelli senza chiedere permesso. Senza pagare. Senza nemmeno dire “grazie”.

È qui che la parola AI copyright smette di suonare come una sterile questione tecnica e diventa una bomba culturale. Non è solo un aggiornamento legislativo, è una riscrittura delle regole del valore. E chi lo dice non è un nerd con l’ossessione per il fair use, ma una leggenda vivente che ha venduto 300 milioni di dischi.

Il Regno Unito, nella sua corsa disperata a diventare the AI nation, vuole trasformare ogni riga, ogni immagine, ogni accordo musicale in carburante per i modelli linguistici e generativi del futuro. L’idea è semplice quanto diabolica: se hai “accesso legale” a un contenuto, puoi usarlo per addestrare la tua AI. Nessuna autorizzazione. Nessun compenso. Nessuna trasparenza. Una manna per chi sviluppa modelli, una trappola per chi crea contenuti.

Il governo Labour, guidato da Keir Starmer, si gioca la carta della crescita: +1,5% di produttività annua, 47 miliardi di sterline in più nel PIL se tutto va secondo i piani. Il solito miraggio neoliberale, condito con buzzword come AI Opportunities Action Plan e resilienza digitale. Ma la realtà? Una gigantesca svendita del patrimonio culturale, a favore delle stesse multinazionali che hanno trasformato internet in una fabbrica di sorveglianza predittiva.

Il paradosso è che mentre il Regno Unito cerca di legittimare l’uso senza limiti del contenuto artistico, le stesse aziende tech come Anthropic vengono trascinate in tribunale per “hallucinations” generate dai loro modelli, pieni di testi protetti da copyright. E in un twist degno di una serie Netflix, uno degli scienziati della difesa avrebbe citato, in tribunale, uno studio inesistente. Un’allucinazione per giustificare un’altra allucinazione. Il futuro, signore e signori, è arrivato: è un algoritmo con problemi di coscienza e la tendenza a mentire.

E intanto, mentre i burocrati del Department for Science, Innovation and Technology evitano di commentare, un fronte trasversale si forma. Paul McCartney, Eric Clapton, Ed Sheeran, Kazuo Ishiguro, Dua Lipa. Più di 400 firme, da Sony Music alla National Union of Journalists. Tutti uniti in una lettera aperta per fermare l’emorragia. Per chiedere almeno trasparenza – un concetto ormai esotico – sull’origine dei dati usati per addestrare questi modelli. Per dire: “voglio sapere se la mia voce, il mio testo, la mia melodia sono stati inglobati in una macchina che ora genera imitazioni gratuite”.

La difesa dell’arte, della creatività, della proprietà intellettuale non è mai stata così urgente. Perché se passa il principio che tutto ciò che è accessibile è anche liberamente addestrabile, allora ogni forma di produzione creativa diventa carne da macello per i modelli di previsione. Una canzone può diventare un prompt. Un romanzo, un pattern semantico. Un’opera fotografica, uno stile da replicare con una riga di codice. Il genio? Retrocompatibile. La paternità? Un ricordo romantico.

“Non puoi battere l’intelligenza artificiale con una chitarra acustica”, avrebbe detto qualcuno al pub. Ma forse puoi batterla ricordando al mondo che senza contenuti, l’AI non è nulla. Letteralmente nulla. Non crea, non immagina, non sogna. Ricombina. E se le togli l’accesso gratuito e impunito a migliaia di opere umane, la sua magia svanisce.

Dietro questa vicenda si nasconde il cuore pulsante del prossimo conflitto tra capitale e cultura. Non si tratta di essere “contro l’AI”. Si tratta di pretendere regole giuste. Redistribuzione del valore. Riconoscimento del lavoro intellettuale. Il che, per chi governa con Excel invece che con visione, suona come eresia.

È un gioco pericoloso, questo. Perché mentre il governo scommette sul futuro, rischia di bruciare il presente. Di creare un deserto creativo, dove i giovani artisti – quelli senza avvocati, senza etichette, senza risorse – si ritrovano derubati due volte: prima del proprio lavoro, poi del proprio diritto di protestare.

Elton John ha ragione: è una questione di furto. E di tradimento.

Ora la palla è nelle mani della politica. Ma una cosa è certa: se non fermiamo questa deriva ora, domani ci sveglieremo in un mondo dove ogni parola che scrivi, ogni immagine che scatti, ogni nota che componi… sarà già di qualcun altro.