Mentre ci beviamo l’ultima birra artigianale a Brooklyn o ci lamentiamo della ZTL a Milano, Amazon ha iniziato a costruire silenziosamente un “parco umanoide” in un ufficio di San Francisco. No, non è un’attrazione turistica per nostalgici di Westworld, ma una palestra hi-tech dove androidi addestrati da intelligenze artificiali stanno imparando a saltar fuori dai furgoni Rivian per consegnare i nostri pacchi. Letteralmente.

Il progetto è tutto fuorché una boutade fantascientifica. Secondo The Information, il colosso di Seattle sta mettendo a punto software agentici avanzati sistemi capaci non solo di rispondere a comandi, ma di agire in modo autonomo e adattivo. Niente più macchine rigide a compiere task singoli come in una catena di montaggio fordista: Amazon vuole trasformare i suoi robot in creature quasi conversazionali, capaci di interpretare ordini in linguaggio naturale. Sì, tipo: “porta questo pacco al tizio col bulldog al terzo piano, ma attento a non calpestare il basilico della signora Rosina”.

Il concetto stesso di “agente” diventa qui un incubo per i sindacati e una sinfonia per gli investitori. I nuovi automi saranno imbarcati sui van elettrici Rivian (marchio in cui Amazon ha investito pesantemente) e si lanceranno — elegantemente, si spera — fuori dal retro per consegnare le merci. È il balletto perfetto della logistica 5.0, un pas de deux tra software predittivo, mobilità elettrica e forza lavoro sintetica.

Ma cosa c’è dietro questa corsa ossessiva alla robotizzazione della last mile delivery? Non è solo una questione di costi, anche se è facile fare i conti: un robot umanoide come “Digit” di Agility Robotics costa in media quanto uno stipendio annuale da driver, ma lavora 24 ore, non fa pause, non sciopera, non si lamenta del caldo. Oppure il modello Unitree, direttamente dalla Cina: 16.000 dollari per un androide agile e modulare, una specie di cucciolo di Terminator pronto a scalare marciapiedi e infilarsi nei portoni.

La verità, però, è che Amazon non si accontenta di ottimizzare. Jeff Bezos, anche se più impegnato a colonizzare l’orbita bassa che il magazzino di Arese, ha lasciato un’eredità culturale ossessiva: l’automazione totale. Quando nel 2020 ha acquisito Zoox, startup di robotaxi, era chiaro che il futuro sarebbe stato un’unica pipeline logistica chiusa, dalla fabbrica al soggiorno, senza mani umane a sporcarsi di nastro adesivo. Magari anche con un pizzico di controllo sociale — ma chi siamo noi per giudicare?

Amazon, con oltre 500.000 operatori di consegna sparsi nel globo, non ha mai fatto mistero del suo sogno: eliminarli, o almeno ridurli al minimo necessario. Inizia con qualche robot di supporto nei centri di smistamento, come già avviene in USA con sistemi semiautonomi; poi passa alla flotta delivery; infine, chiude il cerchio con IA che coordina tutto, dai percorsi ottimali all’ultima conversazione con l’utente.

E qui la parola chiave diventa software agentico. Non stiamo parlando di intelligenze artificiali stupide che leggono barcode: ma di entità capaci di operare decisioni basate su ambienti non deterministici. Una forma embrionale di “intelligenza logistica generalista”, dove il robot decide se salire le scale, aspettare che il cane si calmi, o lasciare il pacco al vicino. Non è solo efficienza. È una nuova ontologia del lavoro.

Ironia della sorte: tutto questo avviene mentre l’Occidente discute ancora se tassare le multinazionali del tech, mentre i camionisti francesi bruciano copertoni e i sindacati italiani raccolgono firme contro il lavoro del sabato. Amazon, nel frattempo, costruisce un coffee shop per robot a San Francisco.

D’altra parte, i robot non votano. Non fanno sindacato. E non chiedono la tredicesima. Per ora.

Certo, non tutto è semplice. I problemi sono tanti: affidabilità in ambienti reali (scale, neve, bambini curiosi), consumo energetico, cybersecurity (nessuno vuole che il suo pacco venga recapitato da un robot hackerato da un 14enne russo). Ma Amazon ha le risorse, la cultura e l’ecosistema per risolverli, uno per uno. Come ha già fatto con AWS e Prime: prima li deridevano, poi li usavano tutti.

La mossa di lanciare un “team agentico” dedicato, in stile Manhattan Project, segna il punto di non ritorno. Non si tratta più di “testare” robot, ma di prepararli alla guerra commerciale finale: quella della disintermediazione umana.

In fondo, Amazon non vuole solo consegnarti il pacco. Vuole possedere ogni istante di quel processo. Dallo scorrere del tuo dito sul telefono fino al fruscio del cartone sullo zerbino. E ora, vuole che a suonare il campanello sia un avatar della sua visione definitiva: un androide marchiato Prime, felice di obbedire, incapace di scioperare.

Come disse una volta Kurt Vonnegut, “We are what we pretend to be, so we must be careful about what we pretend to be.” Amazon non finge più. Sta diventando davvero ciò che aveva sempre promesso di non essere: un ecosistema chiuso, completamente autonomo, dove l’umano è solo l’ultimo nodo della rete.

A noi resta la scelta se restare utenti, o diventare complici.