La scena è questa: una redazione vuota, le luci ancora accese, le tastiere ferme. Sulle scrivanie, gli ultimi numeri stampati di un quotidiano digitale, ormai irrilevante. Là fuori, milioni di utenti digitano domande sui loro smartphone, ma le risposte non arrivano più dai giornalisti. Arrivano da una macchina. È l’era della post-search, e Google non è più un motore, ma un oracolo.
L’apocalisse silenziosa è cominciata con una frase: “Google is shifting from being a search engine to an answer engine.” Traduzione: cari editori, potete anche spegnere il modem.
La keyword che brucia è chatbot, con le sue sorelle semantiche traffico organico e AI generativa. In tre anni, secondo dati di Similarweb riportati dal Wall Street Journal, HuffPost ha perso più della metà del traffico proveniente da Google. Il Washington Post quasi altrettanto. Business Insider ha tagliato un quinto della forza lavoro. E no, Zuckerberg stavolta non c’entra. Il nemico è molto più vicino, e molto più silenzioso.
Tutto ruota attorno a una mutazione genetica dell’informazione: l’introduzione di AI Overviews e AI Mode, funzioni di Google che trasformano la ricerca in un dialogo, uno scambio senza link, senza clic, senza bisogno di andare altrove. L’utente chiede, l’algoritmo risponde. Punto.
Per anni, l’editoria digitale ha barattato la propria anima con il traffico organico. SEO, keyword stuffing, backlink, titoli acchiappa-clic: la liturgia quotidiana di chi sperava in una conversione, un CPM, un abbonamento. Oggi, tutto quel traffico che arrivava come manna dal motore di ricerca evapora sotto forma di snippet conversazionali. Come dire: il banchetto è finito, e l’AI si è portata via le posate.
Secondo Nicholas Thompson dell’Atlantic, bisogna “assumere che il traffico da Google tenderà a zero”. Non è un’opinione. È un testamento. Una call to arms per sopravvivere in un paesaggio dove il link blu non vale più nulla.
E mentre la notizia sparisce dall’homepage per riaffiorare sotto forma di risposta preconfezionata in un assistente virtuale, si apre un nuovo fronte: quello dei modelli linguistici addestrati sul sangue altrui. Perché, diciamolo: la materia prima di ChatGPT e soci è roba scritta da esseri umani, spesso giornalisti, spesso non pagati per questo uso. Un nuovo colonialismo informativo, ma algoritmico. Dove le redazioni sono il Congo e gli LLM sono Leopold II con un prompt.
The New York Times ha fatto causa a OpenAI. Poi ha firmato un accordo con Amazon. Una dicotomia tipica del capitalismo editoriale: difendersi e vendersi, nello stesso paragrafo. Nel frattempo News Corp, che pubblica Wall Street Journal, ha siglato un accordo con OpenAI ma prepara le carte bollate contro Perplexity. Fa un po’ ridere. Fa anche un po’ paura.
L’ironia feroce della storia è che Google, oggi, si trova esattamente nel posto dove ha spinto l’intero ecosistema mediatico: sull’orlo della disintermediazione. L’AI sta facendo a Google quello che Google ha fatto ai giornali. E mentre l’azienda di Mountain View finge calma – “gli utenti che cliccano dopo un AI Overview passano più tempo sui siti” – il tono tradisce il panico. È come se Blockbuster dicesse che il noleggio è aumentato… il giorno prima che Netflix lo chiudesse per sempre.
Nel frattempo, le testate arrancano, inventano eventi, conferenze, app, newsletter. Vogliono costruire “relazioni dirette con i lettori”. Tradotto: sperano che qualcuno si ricordi del loro nome senza passare da Google. Ma in un mondo dove l’utente parla direttamente con una macchina per sapere chi ha vinto le elezioni, l’idea di “abitudine al brand editoriale” sembra tenera come un fax in una call su Zoom.
Il vero dramma è che il crollo del traffico organico non è una crisi tecnica. È una crisi ontologica. Se nessuno legge la fonte, se nessuno arriva più sul sito, se la notizia vive solo come frase dentro un chatbot, il giornalismo come lo conosciamo è morto. Non c’è più contesto, non c’è più autorevolezza, non c’è più responsabilità. C’è solo la risposta giusta, detta bene, con tono rassicurante, da un assistente che non dorme mai.
William Lewis del Washington Post lo ha detto chiaro: “È una minaccia seria che non va sottovalutata.” Ma l’era della sottovalutazione è finita. Adesso siamo nel pieno della disintegrazione. Quello che per anni è stato il carburante del giornalismo digitale – l’attenzione mediata dal search – si sta trasformando in fumo.
Il fatto che proprio il Wall Street Journal abbia registrato un incremento di traffico, in controtendenza, è interessante. Ma non fa primavera. È l’ultima sigaretta prima del blackout.
La partita vera, ora, è se l’informazione riuscirà a ricostruire una relazione diretta, disintermediata, autonoma. Un ritorno all’essenza del giornalismo come servizio, non come prodotto per l’algoritmo. Una sfida quasi spirituale, in un mondo dove i chatbot parlano come noi, ma non sentono nulla.
Perché mentre la stampa combatte per difendere il copyright, l’AI combatte per essere necessaria. E vince. Con ogni risposta che evita un clic. Con ogni utente che non sente il bisogno di leggere altro.
Ma attenzione. L’algoritmo non ha bisogno di noi. Ma noi, ancora per un po’, abbiamo disperatamente bisogno di capire cosa succede davvero. Non basta un riassunto. Serve una voce. Serve una firma. Serve una redazione.
Altrimenti, tra un paio d’anni, l’unico posto dove troveremo un giornalista… sarà nel dataset di addestramento di un chatbot.