C’è un paradosso che aleggia nell’aria rarefatta del Paris Air Show, tra voli acrobatici e salotti aziendali climatizzati: si parla di sovranità industriale, ma con componenti cinesi incastonati nei circuiti dei nostri caccia. Boeing, nella persona del vicepresidente Turbo Sjogren, ha avuto il coraggio — o l’astuzia — di dirlo ad alta voce: l’Europa deve svegliarsi. Non sarà mai autonoma finché continua a costruire la sua difesa con metalli raffinati a Pechino.
La parola chiave è semplice, ma tossica: dipendenza. Quella dell’Occidente — e in particolare dell’industria della difesa europea — da una filiera dominata dalla Cina, che ha fatto delle terre rare e dei metalli critici un’arma di politica estera. Samario, gadolinio, disprosio: sembrano nomi da pozione alchemica, ma senza di loro i missili non vedono, i radar non parlano, e le fregate diventano scafi alla deriva.
Il nodo è profondo. L’industria aerospaziale, per sua natura, è globale. “Nessuno può farcela da solo”, ha ammesso lo stesso Sjogren, ma ha poi puntato il dito: dal 1973, gli Stati Uniti hanno una legge — il Specialty Metals Act — che vieta l’uso di metalli critici provenienti da paesi avversari per la produzione militare. Tradotto: Boeing non può mettere una goccia di alluminio cinese in un aereo da guerra. E l’Europa?
L’Europa si sveglia adesso. Forse. Con la recente Critical Raw Materials Act, si è deciso di mappare 47 progetti strategici per ridurre la dipendenza da Pechino, e promuovere l’estrazione e la raffinazione in casa. Bruxelles sogna una filiera autarchica, ma i sogni non si scavano nelle miniere.
Nel frattempo, la Cina ha già mosso le sue pedine. Ha imposto licenze all’esportazione su una serie di terre rare — quelle stesse che fanno funzionare radar, propulsori e sensori — con una precisione chirurgica. Gesto di ritorsione? Sicuramente sì. È la risposta di Pechino ai dazi americani, una mossa che somiglia più a un colpo di judo che a una minaccia frontale: non ti colpisco io, ti faccio mancare ciò che ti tiene in piedi.
Nel gergo della sicurezza nazionale, questa si chiama weaponized supply chain. E se nel 2022 abbiamo imparato che il gas è geopolitico, nel 2025 dovremo capire che lo è anche il gallio. Il gallio non si mangia e non si beve, ma senza di esso i radar a stato solido non vedono, i jet da combattimento non volano come dovrebbero, e l’intelligenza artificiale a bordo si riduce a poco più di un calcolatore tascabile anni ’80.
Qui non si parla solo di materie prime. Si parla di tempistiche industriali, di alleanze tecnologiche, e soprattutto di una cosa che l’Europa ha sempre trattato con ambiguità: la vera autonomia strategica. Che non è un comunicato della Commissione né un convegno con buffet, ma un cacciavite in mano a un operaio europeo, che monta un radar con materiali estratti e raffinati a meno di 2.000 chilometri di distanza.
Certo, Sjogren non è un crociato dell’autarchia. Sa bene che la globalizzazione industriale è una realtà ineluttabile. Eppure, si percepisce un tono sottile nella sua dichiarazione: gli Stati Uniti hanno già fatto la loro scelta. La sicurezza non si subappalta. Boeing ha certificazioni che garantiscono l’origine di ogni singolo componente: niente Cina, neanche una vite. E l’Europa? L’Europa ha Airbus, ha Leonardo, ha Rheinmetall. Ma ha anche — troppo spesso — un pensiero unico costruito su economia di scala e “mercati aperti”.
C’è poi la parte ironica, quella che farebbe ridere se non fosse tragica. In aprile, nel pieno della guerra commerciale, Trump si è vantato di aver strappato alla Cina una promessa di forniture di terre rare. E Pechino, poco dopo, ha ristretto ulteriormente le esportazioni. Come dire: “Certo che te le do… quando dico io e in quantità che decido io”.
In questo quadro si inserisce la narrazione di Boeing. Un’azienda che supporta 25 forze armate europee, coinvolge 600 aziende nel continente e coopera con nomi come Saab e Airbus. Non è solo patriottismo industriale, è strategia. Boeing non può permettersi che l’Europa cada in una crisi da materiali critici. Perché se Airbus non può costruire, anche Boeing non può vendere.
Tim Flood, altro dirigente Boeing, ha detto con lucidità che in Europa si sta consolidando una “minaccia reale e crescente” e che l’unico modo per rispondere è rafforzare l’autosufficienza industriale. Ma ha anche suggerito — con elegante ambiguità — che questa autosufficienza passerà da una cooperazione strategica con l’industria americana. Insomma: diventate autonomi, ma fatelo con noi.
La verità, naturalmente, è più ruvida. La Cina domina oltre il 90 per cento della raffinazione globale delle terre rare. Ha l’egemonia su gallio, germanio, antimonio. Controlla il rubinetto. E quando vuole, lo chiude. Lo ha già fatto, lo rifarà. L’Europa, se continua a pensare che la transizione green e la difesa digitale possano convivere con la dipendenza da questi flussi asiatici, è semplicemente ingenua. O peggio: complice.
In fondo, tutto si gioca sul tempo. Non ci vogliono mesi per creare una filiera alternativa. Ci vogliono anni. Investimenti. Visione. E — paradossalmente — anche un po’ di protezionismo intelligente. L’economia aperta, se diventa nuda, è solo vulnerabilità travestita da virtù.
Ecco perché questo tema — i metalli critici, la difesa, la sovranità — non è solo un fatto industriale. È un test di realtà. Se non altro, Boeing l’ha detto: svegliatevi, europei. Ma non troppo da soli, mi raccomando.