Non è una guerra fredda, è una guerra neuronale. Niente spie, niente codici Morse, solo zeri e uno, valigette di stock option e firme su NDA lunghi quanto la Bibbia. Sam Altman, CEO di OpenAI e ormai avatar vivente dell’etica tecnoliquida, ha rivelato che Meta avrebbe offerto bonus di 100 milioni di dollari a singoli dipendenti di OpenAI. Sì, cento milioni. A testa. Per firmare un contratto e cambiare bandiera. Una mossa più da hedge fund che da laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale.

Eppure, dice Altman con la freddezza di chi ha appena battuto Kasparov a scacchi usando una calcolatrice solare, “nessuno dei nostri migliori ha accettato”. E non lo dice in una conferenza stampa alla Davos dei bit, ma durante il podcast del fratello, un format familiare che suona più come una cena del Ringraziamento in cui si discute di superintelligenze tra un tacchino e una puntata di Black Mirror.

Il caso è emblematico, e dice molto di più di quanto sembri. In un ecosistema dove il talento AI è diventato la valuta più rara e ambita, Meta cerca di fare shopping armata fino ai denti. E lo fa nel modo più brutale e finanziariamente pornografico possibile: aprendo il portafoglio a dimensioni che nemmeno Wall Street nel delirio pre-Lehman. Ma il vero punto non è se quei 100 milioni siano una tentazione irresistibile. Il punto è: perché non lo sono?

La risposta sta nel capitale simbolico.

OpenAI, nel bene o nel male, è percepita come la startup che tiene in mano il volante del futuro, anche se nessuno è sicuro che quel volante sia ancora collegato a una macchina. È la “Tesla dell’intelligenza”, senza però dover spacciare auto con bug OTA. Chi lavora lì non lo fa solo per lo stipendio, ma per una forma quasi religiosa di missione: “allineare l’AI agli interessi dell’umanità”, anche se nessuno ha ancora ben capito cosa significhi.

Altman è maestro di questo gioco. Non è un CEO, è un tecnoscultore del pensiero collettivo. Sa che, nel mondo delle AI, trattenere i migliori non significa solo pagarli di più. Significa creare una narrazione in cui sentirsi parte di qualcosa che non può essere comprato con un assegno firmato Zuckerberg. Il culto dell’OpenAI è stato costruito così: trasparenza apparente, ambiguità calcolata, e un senso di urgenza apocalittica che attrae come la luce attira le falene.

Meta, d’altro canto, continua a collezionare talenti come figurine rare, ma con un problema strutturale: non riesce a costruire un’identità valoriale che vada oltre il suo metaverso abbandonato o le copie di TikTok. E nel mondo degli LLM e dell’AI generativa, l’identità etica è parte della stack tecnologica.

Chi si muove per 100 milioni, spesso è anche disposto a muoversi da 100 milioni. E chi resta per una visione, lo fa con una fedeltà che non puoi comprare. La vera retention oggi si gioca sul piano simbolico, su quello esistenziale. Ecco perché Altman può permettersi di ironizzare sull’offerta mostruosa di Meta come fosse un corteggiamento maldestro a un matrimonio già felice.

Sotto il profilo geopolitico-tecnologico, però, questa vicenda è anche una spia rossa accesa sulla dashboard del sistema AI globale. Se Meta è disposta a gettare sul tavolo 100 milioni per singolo ingegnere, significa che la corsa agli armamenti algoritmici è fuori controllo. Che siamo in piena “AI Talent Bubble”, dove il valore percepito di un singolo ricercatore può superare il PIL di un microstato.

La domanda vera, allora, è: quanto può reggere questo sistema prima di implodere sotto il peso delle sue stesse promesse? Per ora Altman regge. Ma lo fa camminando su una corda tesa tra due grattacieli fatti di hype e rischio esistenziale.

E chissà che non stia già allenando i suoi modelli a scrivere offerte di lavoro più convincenti di quelle di Meta. O, più probabilmente, che stia allenando i suoi dipendenti a non farsi corrompere neanche da una miniera d’oro. Con un mantra semplice ma letale: “Se lavori qui, sei già nel futuro. Non hai bisogno di comprarlo.”

Come dire: il denaro è una vecchia tecnologia. E nel mondo dell’AI, anche le sirene si aggiornano.