C’era una volta il tennis, quello con i giudici di linea in giacca e cravatta, gli occhi fissi sulla riga e il dito puntato con autorità olimpica. Ora c’è un algoritmo che osserva tutto, non sbatte mai le palpebre e fa errori con la freddezza di un automa convinto di avere ragione. Sì, Wimbledon ha deciso che l’intelligenza artificiale è più elegante dell’occhio umano. Ma quando l’eleganza scivola sull’erba sacra del Centre Court, il rumore che fa è assordante. Anche se a non sentirlo, ironia del caso, sono proprio i giocatori sordi.

All England Club, tempio del conservatorismo tennistico, si è travestito da start-up della Silicon Valley e ha eliminato tutti i giudici di linea umani. Nessuna voce, nessun gesto, solo Hawk-Eye Live, potenziato da un sistema ELC (Electronic Line Calling) basato sull’intelligenza artificiale. Una scelta che suonava come un aggiornamento inevitabile nel mondo post-umano, e che invece si è rivelata una dimostrazione pubblica del paradosso tecnologico per eccellenza: togliere l’uomo dal loop non rende il sistema infallibile, lo rende solo irresponsabile.

Emma Raducanu e Jack Draper, i due talenti britannici più osannati, si sono trovati davanti a un tribunale muto e cieco. Hanno denunciato “chiamate molto sbagliate” che hanno alterato il corso delle partite. Non proteste isteriche da divi capricciosi, ma accuse pesanti che minano la credibilità stessa del torneo. Perché se l’intelligenza artificiale sbaglia e nessuno può correggerla, non è solo un errore: è una condanna definitiva senza possibilità d’appello. E qui il problema si fa sistemico. L’algoritmo non ammette dubbi, non si può convincere, non ha esitazioni. È la voce del futuro, ma suona come un verdetto senza anima.

Il caso di Sonay Kartal è la cartolina perfetta del disastro. A un punto chiave, il sistema è andato in blackout. Nessun out, nessun in, nessuna chiamata. Il nulla assoluto. L’arbitro, smarrito come un turista giapponese alla periferia di Napoli, ha ordinato di rigiocare il punto. Poi è arrivata la spiegazione surreale: un operatore umano aveva spento le telecamere. Ecco il cortocircuito perfetto: una tecnologia che promette efficienza assoluta va in crisi per un click sbagliato. L’uomo rientra in scena solo per rovinare il balletto robotico. E intanto il tennis diventa teatro dell’assurdo.

Il problema si è manifestato anche in modo tragicomico con i giocatori sordi. Senza segnali visivi, non capiscono quando il punto è finito. Non c’è un giudice a sbracciare, non c’è una voce a urlare “out”. Solo un suono digitale che loro non possono percepire. Un sistema che non è stato progettato per includere, ma solo per funzionare in condizioni ideali. Come se Wimbledon avesse sostituito l’empatia con l’efficienza, ignorando che lo sport è soprattutto comunicazione tra esseri umani. Ma l’algoritmo non ascolta, non guarda in faccia nessuno. Ha sempre ragione. Fino a quando non si spegne.

È successo anche a Ben Shelton, giovane americano con servizio da bombardiere. In una partita serale, il sistema ha cominciato a collassare con il tramonto. I sensori, incapaci di vedere nell’oscurità, hanno iniziato a fallire. Shelton ha dovuto chiudere in fretta, prima che il sipario tecnologico cadesse del tutto. Una scena più da romanzo distopico che da torneo di tennis. Un giocatore costretto a battere contro il tempo, non contro l’avversario. Perché ora l’avversario può essere anche un bug nel codice.

Wimbledon ha cercato di parare il colpo con dichiarazioni che odorano di controllo damage management. L’arbitro è lì solo “per sicurezza”, ci dicono, ma l’IA è più precisa di qualsiasi occhio umano. Una frase che suona come un dogma più che come un dato verificabile. Ma la realtà è che la fiducia nella tecnologia non nasce dalla sua infallibilità, bensì dalla nostra volontà di accettarne gli errori. E qui sta il nodo: i giocatori non si fidano. Perché quando perdi un punto, vuoi vedere la faccia di chi ha deciso. E se la decisione arriva da una macchina senza volto, la frustrazione diventa alienazione.

C’è qualcosa di grottesco in tutto questo. In un’epoca in cui si parla tanto di intelligenza artificiale responsabile, di etica degli algoritmi, di explainability, il tempio più sacro del tennis decide di cancellare la componente umana in nome di una perfezione che non esiste. Lo fa senza piano B, senza fallback, senza umiltà. E il risultato è un circo post-umano dove anche l’errore non ha più dignità: è solo un crash di sistema, un glitch estetico da ignorare.

Chi ha davvero vinto, dunque? Non i giocatori, non i tifosi, nemmeno gli organizzatori. Ha vinto l’ideologia del progresso automatico, quella che confonde l’evoluzione con l’eliminazione dell’imperfezione umana. Ma il tennis, come ogni altra forma di competizione, vive di sfumature, intuizioni, errori interpretati, proteste teatrali, emozioni che un algoritmo non potrà mai riprodurre. Quando John McEnroe urlava “you cannot be serious!”, lo faceva a un uomo. Oggi, chi dovrebbe urlarlo, e a chi?

Non è questione di nostalgia per un mondo che non tornerà. È questione di equilibrio. La tecnologia può aiutare, ma non deve sostituire completamente ciò che rende uno sport umano. Wimbledon ha scelto la via estrema. E ora si trova con un torneo in balia di blackout, proteste e silenzi. Un torneo dove la perfezione promessa si è trasformata in una distopia lucida, tagliente e un po’ ridicola. Con buona pace di chi ancora crede che l’intelligenza artificiale sia neutrale, obiettiva e priva di fallibilità. Forse non hanno visto una partita sul campo 14 alle 20:45, quando il sole scende e l’algoritmo, semplicemente, va a dormire.

Benvenuti a Wimbledon 2.0, dove la tradizione è stata sostituita dalla latenza, il giudizio umano dalla logica binaria, e le emozioni da un reticolo di pixel e probabilità. Non resta che una domanda, semplice e definitiva: chi chiama l’ultimo punto, se il sistema si spegne?

FYI dai ns amici del The Telegraph