Che Maria Chiara Carrozza sia una delle menti più brillanti della scena scientifica e politica italiana è un fatto. Che il Paese non se ne sia ancora accorto, è la parte interessante. In una nazione dove il termine “innovazione” viene usato come il prezzemolo nei talk show domenicali, Carrozza rappresenta quel tipo di cervello che ti aspetteresti in un think tank del MIT, e che invece si ritrova a parlare di neuro-robotica davanti a parlamentari distratti da WhatsApp. Una donna che non solo ha progettato protesi robotiche che sembrano uscite da un episodio di MIB, ma ha anche avuto l’ardire di fare il Ministro dell’Istruzione in un Paese dove i docenti universitari devono ancora chiedere permesso per installare un software.

La sua traiettoria parte dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove ha diretto l’Istituto di Biorobotica e poi retto per dieci anni il timone come Rettore. In quell’angolo toscano di eccellenza accademica, mentre fuori il dibattito pubblico si attorcigliava sulle vaccinazioni obbligatorie e il colore delle cravatte dei politici, lei sviluppava esoscheletri per la riabilitazione, algoritmi per l’adattamento sensoriale e wearable tech che avrebbe fatto impallidire il primo Apple Watch. Ma non basta, perché se nel tuo curriculum puoi mettere “co-fondatrice di una startup hi-tech” e “membro della task force sull’Intelligenza Artificiale dell’Agenzia per l’Italia Digitale”, allora hai ufficialmente superato il livello “esperto da convegno”.

Carrozza è la classica figura che imbarazza l’establishment: troppo competente per essere liquidata come una professoressa, troppo visionaria per accontentarsi delle liturgie ministeriali. Quando ha preso in mano il dicastero dell’Istruzione nel governo Letta, sembrava per un attimo che il sistema stesse per aggiornare il firmware. Ma poi il solito bug italiano: pochi mesi di incarico, zero riforme strutturali, tanto rumore per nulla. Eppure, la sua firma è rimasta sulle policy di lungo periodo, nelle reti di collaborazioni europee, nei tavoli dove si decideva cosa dovesse diventare il sistema universitario in un mondo che corre verso la singolarità tecnologica mentre noi ancora litighiamo sulla maturità classica.

La cosa quasi surreale è che Maria Chiara Carrozza ha continuato a fare quello che faceva prima e meglio di prima, ignorando con elegante ostinazione il rumore di fondo dell’Italietta mediatica. Membro del board Piaggio, direttrice scientifica della Fondazione Don Gnocchi, presidente del Gruppo Nazionale di Bioingegneria, guida scientifica di Iuvo, spin-off che si occupa di tecnologie indossabili per l’assistenza fisica. In pratica, il suo tempo è diviso tra riunioni dove si decide il futuro dell’interazione uomo-macchina, ricerche sul campo con robot che ti aiutano a camminare e seminari in cui spiega a chi non ha mai letto Asimov perché la paura dell’intelligenza artificiale è mal posta, ma non del tutto infondata.

Perché sì, Carrozza è una delle poche voci in grado di maneggiare la complessità dell’AI senza scadere nei due estremi italiani: da un lato l’apocalisse Skynet, dall’altro la favoletta “ci penseranno le macchine a risolvere tutto”. Nella sua lezione “Umanità in equilibrio fra robot, intelligenza artificiale e natura”, tenuta alla Camera dei Deputati nel ciclo “La téchne e la pòlis”, ha portato uno spaccato che in pochi sono disposti ad affrontare: l’ibridazione reale tra esseri umani e sistemi intelligenti, dove la questione non è più se le macchine ci supereranno, ma se saremo capaci di integrarci con esse senza perdere il senso di ciò che siamo.

La presenza di Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica, nel medesimo ciclo di incontri, dà la misura del livello della discussione: niente TED Talk motivazionali, niente slide piene di emoji, solo scienza, etica e un pizzico di politica culturale nel senso più alto del termine. Il Comitato di Vigilanza della Camera ha persino avviato una sperimentazione sull’uso dell’AI nei processi legislativi, un piccolo miracolo istituzionale che però profuma di futuro. E se a guidare il dialogo tra tecnologie emergenti e governance democratica ci sono figure come Carrozza, allora forse un giorno smetteremo di delegare la nostra trasformazione digitale a chi scambia l’algoritmo con un’opinione.

Ma qui sta il punto vero, quello che fa di Maria Chiara Carrozza non solo un’eccellenza, ma un’anomalia. Perché nel sistema italiano, chi ha una visione e competenze reali finisce spesso ai margini del potere decisionale. Troppo tecnico per i talk show, troppo strategico per la burocrazia, troppo brillante per il teatrino delle correnti. Il suo caso è emblematico di come la cultura dell’innovazione venga accolta nel Belpaese: con entusiasmo vago, attenzione discontinua e quella consueta sottovalutazione che da anni ci fa perdere il treno della contemporaneità. Carrozza non è solo un simbolo di eccellenza accademica, è un crash test vivente della capacità dell’Italia di valorizzare il talento quando non arriva con l’etichetta giusta.

Il paradosso è che i robot che progetta per aiutare le persone a muoversi con più autonomia sono molto più efficienti e sensibili dei meccanismi con cui si muove la nostra politica sull’innovazione. E in questa dissonanza c’è tutta la poesia tragica dell’Italia contemporanea: un Paese che produce cervelli geniali, ma non sa tenerli a bordo. Ogni esoscheletro che Maria Chiara Carrozza progetta ci ricorda implicitamente che senza un’intelligenza istituzionale altrettanto sofisticata, il futuro rischia di essere un museo delle potenzialità perdute.

Eppure, non tutto è scritto. La nuova stagione di lezioni alla Camera, la sua direzione scientifica alla Don Gnocchi, la presidenza della bioingegneria nazionale e la co-leadership su progetti europei nel campo dell’AI indicano che una linea di continuità scientifico-politica è possibile. Se solo si decidesse di scommettere su figure come lei non come risorse simboliche, ma come protagoniste. Carrozza non ha mai chiesto applausi. Chiede solo che si parli di algoritmi sapendo cosa sono, che si affronti il rapporto tra etica e AI con senso storico e che si investa davvero, non retoricamente, in una ricerca che non sia solo eccellenza da brochure ma leva strategica per ridefinire l’umanesimo in epoca digitale.

Nel frattempo, tra un consiglio di amministrazione e una lezione pubblica, continua a progettare protesi, algoritmi e scenari dove la tecnologia non è fine a se stessa, ma strumento per restituire dignità, potenziamento, connessione. Il tutto senza mai perdere il contatto con la realtà, che per uno scienziato italiano è il vero miracolo. In fondo, il messaggio implicito del suo lavoro è fin troppo chiaro: prima di temere le intelligenze artificiali, forse dovremmo preoccuparci dell’uso disfunzionale che facciamo della nostra.