La grande illusione dell’intenzione di spesa tecnologica è sempre la stessa: tutti fingono di avere un piano, ma alla prima scossa economica l’unica strategia è tirare il freno. Ecco perché S&P Global Market Intelligence ha fatto sobbalzare più di un analista annunciando che, dopo tre trimestri di cauto entusiasmo, la curva dell’ottimismo si è piegata verso il basso nel secondo trimestre e continuerà a calare nel terzo. Un déjà vu noioso, ma pericoloso. Eppure ci cascano sempre: i CFO leggono i numeri, i CEO si preoccupano per la “visibilità futura”, gli investitori chiedono margini. Morale? Le slide sulle “priorità digitali” finiscono di nuovo in fondo all’agenda.

Non si tratta di un problema di liquidità, ma di percezione. La cosiddetta intenzione di spesa tecnologica è una barzelletta corporate, una di quelle che tutti raccontano con serietà. La stessa azienda che un mese fa predicava la necessità di innovare ora taglia senza pietà progetti che non siano sicurezza, cloud computing o intelligenza artificiale. Ed è affascinante notare come la sicurezza rimanga intoccabile, quasi fosse un atto di fede. La paura vende meglio di qualsiasi demo. Un attacco informatico ben raccontato vale più di mille business case. Se un ransomware colpisce un concorrente, l’ok del board arriva in 30 secondi. Nessuno però osa dire che la sicurezza, in questo contesto, non è innovazione: è puro istinto di sopravvivenza.

Il cloud computing, invece, continua a essere il giocattolo preferito dei manager che vogliono sembrare visionari senza rischiare troppo. Migrare al cloud è ormai la scusa perfetta: si può parlare di efficienza, riduzione dei costi e persino di sostenibilità, senza dover inventare nulla di davvero nuovo. L’intelligenza artificiale, dal canto suo, è il vero talismano di questo ciclo. I budget si salvano se contengono la magica etichetta “AI-powered”, anche se spesso si tratta di poco più che un algoritmo di raccomandazione truccato da innovazione. “L’azienda deve essere AI-driven entro l’anno”, ripetono i CEO nei town hall meeting, come se bastasse un annuncio per cambiare il DNA di un business che fino a ieri viveva di fogli Excel e call center. Ma è così che funziona la psicologia del mercato: la percezione conta più del risultato.

L’aspetto ironico è che questa selezione darwiniana delle spese sta uccidendo silenziosamente l’innovazione vera. I software aziendali non legati all’intelligenza artificiale stanno scivolando nell’oblio delle “priorità future”, un eufemismo per dire che non se ne parlerà più. I produttori di hardware soffrono perché, in un mondo ossessionato dal cloud computing, ogni pezzo di metallo sembra improvvisamente vecchio, costoso e irrilevante. L’economia reale, quella fatta di supply chain e macchine che devono ancora funzionare, non scompare, ma perde fascino davanti alla promessa di un futuro etereo, “as-a-service”.

Qualcuno potrebbe obiettare che è solo colpa dell’incertezza macroeconomica e delle tensioni commerciali, magari puntando il dito contro l’amministrazione Trump e la sua politica imprevedibile. Un alibi comodo, ma superficiale. La verità è che molte aziende hanno sempre usato il contesto politico come scusa per mascherare una mancanza cronica di strategia tecnologica. L’intenzione di spesa tecnologica non cala solo perché Trump minaccia dazi: cala perché la maggior parte delle organizzazioni non ha mai avuto un piano digitale coerente. Hanno seguito mode, comprato consulenze costose e accumulato progetti pilota mai completati. Ora che l’euforia si è sgonfiata, restano solo quelle iniziative che promettono ritorni misurabili in tempi brevissimi, meglio se trimestrali. Ecco perché la sicurezza vince: è tangibile, spaventa e porta numeri facili da mostrare agli azionisti.

C’è un paradosso che nessuno osa dire ad alta voce. Mentre i bilanci tagliano, le stesse aziende continuano a sbandierare il mantra della trasformazione digitale. “Stiamo investendo nel futuro” è la frase che appare in ogni earnings call, anche quando i progetti più ambiziosi sono stati silenziosamente accantonati. È un teatro in cui tutti recitano la parte giusta per non spaventare il mercato, ma in realtà pochi credono davvero alla narrativa che stanno vendendo. La prova? Basta guardare come vengono approvati i budget: sicurezza al 100 per cento, cloud computing se può ridurre o spostare costi, intelligenza artificiale se c’è una storia da raccontare agli analisti. Tutto il resto può attendere. E quando “può attendere” diventa la definizione ufficiale di innovazione, il futuro che tanto si invoca è già in ritardo.

Un’ultima curiosità, tanto per aggiungere un tocco di ironia: S&P prevede un ulteriore calo dell’intenzione di spesa tecnologica nel terzo trimestre. Come se fosse davvero una sorpresa. Il settore tech, che ama definirsi predittivo e data-driven, continua a comportarsi come un mercato guidato dall’umore del giorno. E gli stessi CEO che parlano di modelli previsionali sofisticati si fanno condizionare da tweet politici e indiscrezioni sui dazi. Forse l’intelligenza artificiale, prima di ottimizzare la supply chain, dovrebbe insegnare un po’ di coerenza a chi prende le decisioni. Ma quella, si sa, non si può comprare “as-a-service”.