Il paradosso è servito su un piatto d’argento. La Silicon Valley, patria del liberalismo progressista e della retorica anti populista, oggi applaude un presidente che fino a ieri considerava un corpo estraneo nel suo universo dorato di equity, stock option e startup miliardarie. L’intelligenza artificiale, quella vera, non il marketing travestito da AI, è diventata il nuovo feticcio politico. E Donald Trump lo ha capito meglio di chiunque altro. In una scena che quattro anni fa sarebbe sembrata satira politica, il presidente, a sette mesi dal suo secondo mandato, ha annunciato un quadro normativo che definire aggressivo è un eufemismo. Ha promesso deregulation, incentivi e un’accelerazione forzata dello sviluppo. Ha scelto di farlo non in un contesto istituzionale, ma in un evento co-organizzato da venture capitalist che sembravano usciti da un episodio di Silicon Valley: quattro investitori trasformati in podcaster, e uno di loro già ribattezzato “lo zar dell’intelligenza artificiale e delle criptovalute”.

È qui che la scommessa della Silicon Valley su Trump diventa interessante. Non si tratta solo di simpatia personale o di affinità ideologica. È puro calcolo economico. L’indice S&P 500 è salito di circa il 7% dall’insediamento di Trump e, più importante, il mercato delle IPO si è scongelato dopo mesi di letargo glaciale. Figma, la regina dei software di design, è pronta a un debutto pubblico che fino a qualche mese fa sembrava fantascienza, trainata dalle performance esaltanti di CoreWeave e Circle. Quando i mercati si muovono, gli idealismi evaporano. È la legge aurea della finanza tecnologica.

Le criptovalute raccontano un’altra storia, ancora più cinica. Trump ha deciso di allontanarsi dall’approccio normativo muscolare che la Casa Bianca di Joe Biden aveva imposto al settore. Risultato: i prezzi delle crypto sono esplosi, e con loro il valore degli asset personali di quella ristretta élite tecnologica che ama definirsi innovatrice ma che, in realtà, ragiona come qualunque aristocrazia del capitale. Le venture capital firm, molte delle quali con partecipazioni pesantissime in startup crypto, stanno raccogliendo dividendi da capogiro. Non è un caso che, in questo momento, chiunque nella Silicon Valley con un portafoglio in Ethereum o Bitcoin stia brindando con champagne francese, fingendo al contempo indignazione sui social network per le politiche migratorie di Trump.

Ci sono, certo, elementi di caos. Elon Musk, l’uomo che più di chiunque altro ha spinto la comunità tech verso Trump, ha scelto di autoesiliarsi dalla Casa Bianca in un atto che sembra più una mossa da manuale di brand management che un vero disaccordo politico. Nonostante l’assenza di Musk nei corridoi di Washington, il rapporto tra Trump e la tecnologia non si è raffreddato. La sua strategia tariffaria, definita “itinerante” persino dai suoi stessi consiglieri, resta un rischio sistemico. Licenziare Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, potrebbe scatenare una tempesta sui mercati, ma per ora tutto è sotto controllo. E, come sanno bene i venture capitalist, finché i grafici puntano verso l’alto, anche la volatilità più pericolosa viene digerita con una certa eleganza.

L’aspetto più intrigante, e forse più ipocrita, è che anche i progressisti della Silicon Valley stanno beneficiando di questa luna di miele tra Trump e il mondo tech. Chiunque investa in intelligenza artificiale oggi ha buone ragioni per sorridere, e non solo perché i finanziamenti scorrono a fiumi. La nuova cornice normativa proposta da Trump promette di accelerare le autorizzazioni, ridurre i vincoli burocratici e persino introdurre incentivi fiscali per la ricerca avanzata. È un cocktail esplosivo per startup affamate di capitali e per colossi come OpenAI, Google DeepMind e Anthropic, che hanno compreso che l’era dei freni regolatori europei potrebbe diventare un lontano ricordo oltreoceano.

La narrazione ufficiale dipinge questa fase come un rinascimento tecnologico americano, ma la verità è meno poetica. Siamo davanti a un patto tacito tra potere politico e potere economico, che ha un solo obiettivo: accelerare la creazione di ricchezza in un settore che, per definizione, premia pochi e lascia briciole agli altri. Non è un caso se i venture capitalist hanno salutato con entusiasmo la nuova dottrina trumpiana. La Silicon Valley, spesso dipinta come baluardo progressista, si è rivelata nel profondo pragmatica, spietatamente capitalista e pronta a cambiare alleanze politiche se questo significa moltiplicare gli zeri sui conti correnti.

C’è un’ironia crudele in tutto questo. Gli stessi guru tecnologici che predicavano la necessità di una regolamentazione più severa per proteggere la società dagli abusi dell’intelligenza artificiale ora applaudono a un presidente che promette l’opposto. È il trionfo della logica del “move fast and break things”, versione 2025. Se questo accelererà davvero l’innovazione o causerà la prossima bolla finanziaria, poco importa. Per il momento, la Silicon Valley ha vinto la sua scommessa e Trump, piaccia o no, è diventato il suo più grande alleato.