Mark Zuckerberg ha sentenziato che tra 18 mesi l’intelligenza artificiale scriverà codice meglio della maggior parte degli ingegneri. Un’affermazione spavalda, da tipico CEO sotto effetto Metaverso, che ottiene ovviamente la reazione che merita: 116.000 like, 182.000 condivisioni, una valanga di commenti entusiasti, catastrofisti, o semplicemente disorientati. Eppure, dietro questa frase da copertina, si nasconde un discorso più complesso, più inquietante, e (forse) più interessante. Ma no, non è ancora la fine del software engineering. È solo la mutazione che tutti stavamo aspettando. E che molti avevano già previsto, ma senza meme virali.
Il succo? Zuckerberg non ha detto niente di particolarmente nuovo. Ma l’ha detto nel modo giusto, nel momento giusto, col tono di chi sta tracciando la mappa di un mondo post-umano. Ed è per questo che tutti hanno iniziato a parlarne. O meglio, a twittarci sopra.
L’idea che le macchine possano scrivere codice è vecchia almeno quanto l’idea di “machine learning”. Quello che cambia oggi è il livello di sofisticazione. Non stiamo più parlando di strumenti da sviluppatore avanzato tipo regex assistant o IDE che completano automaticamente il codice. Parliamo di modelli generativi che leggono una specifica e generano in pochi secondi quello che un junior developer impiegherebbe ore a scrivere. Ma attenzione: generano codice non significa capiscono il problema. E questo è il punto. Perché la vera ingegneria del software non è scrivere codice, è risolvere problemi strutturali, logici, architetturali. È pensare come un sistema. E qui, l’AI ancora zoppica come un avatar nel Metaverso.
Zuckerberg, con la sua solita capacità di sparare verità distorte con la grazia di un elefante in una fabbrica di chip, ha comunque centrato un tema reale: la codifica ripetitiva, quella da tutorial, quella da bootcamp accelerato, è spacciata. Gli sviluppatori che passano il 70% del loro tempo a scrivere CRUD, interfacce banali, script di automazione, dovrebbero iniziare a preoccuparsi. Il valore del loro lavoro sta collassando come il prezzo delle azioni di Meta dopo ogni keynote.
Ma attenzione a non fare l’errore opposto: non stiamo parlando di una “fine del coding” in senso assoluto. Parliamo della fine della codifica come lavoro manuale. Parliamo della trasformazione dell’ingegnere in architetto, del programmatore in curatore, del dev in orchestratore di modelli generativi. La scrittura del codice diventa una funzione, non una missione. Una commodity, non un’arte. E questo cambia tutto. Ma non uccide l’ingegnere, lo costringe solo ad evolversi. Darwin applicato al software.
In questo scenario, le skill che sopravvivono sono quelle ad alta densità cognitiva: la progettazione di sistemi distribuiti, la gestione delle complessità emergenti, la sicurezza logica e infrastrutturale, l’integrazione tra servizi autonomi. Nessuna AI oggi sa scrivere un sistema resiliente distribuito su sei region, in grado di scalare orizzontalmente con fault-tolerance e compliance regolamentare. E se mai imparerà a farlo, sarà perché qualcuno, un ingegnere umano, le avrà insegnato a pensarci. O perché avrà letto migliaia di stack overflow e GitHub issues scritti da veri professionisti, nel sangue e nel dolore.
Il problema è che l’ingegneria non è un’arte ripetitiva. È una disciplina fatta di scelte. Ogni linea di codice ha delle implicazioni. Temporali. Economiche. Tecniche. Politiche, a volte. Scrivere codice non è solo eseguire un compito, è assumersi una responsabilità. È capire perché quella riga va scritta in un certo modo, perché quel pattern è più robusto, perché quella dipendenza va isolata. E questa comprensione è, ancora oggi, profondamente umana.
Zuckerberg non parla agli ingegneri, ma agli investitori. Ogni volta che annuncia la morte di qualcosa, non è perché quella cosa sia veramente morta, ma perché spera che morendo quella cosa, si aprano nuovi mercati. È successo col mobile. Col social. Con il metaverso (R.I.P.). Ora con l’AI. Ma la realtà, come sempre, è più complicata del pitch.
Quello che serve ora non è imparare a scrivere meno codice. È imparare a scrivere codice meglio, con e attraverso l’AI. È sviluppare una nuova grammatica ingegneristica dove il prompt è il nuovo pseudocodice, dove il test è la nuova documentazione, dove la creatività logica conta più della sintassi. È diventare maestri nella supervisione, nell’integrazione, nella validazione. È, in sostanza, smettere di pensarsi come sviluppatori, e iniziare a pensarsi come sistemisti intelligenti in un mondo dominato da macchine semi-autonome.
E qui arriva il paradosso. Più l’AI diventa brava a scrivere codice, più diventa fragile se lasciata sola. Più la complessità cresce, più serve qualcuno che capisca davvero cosa sta succedendo dietro quel codice. Il problema non sarà mai “quanto codice sa scrivere l’AI”. Il problema sarà “chi si prende la responsabilità di quel codice quando tutto va a rotoli?”. E non sarà un chatbot a firmare il contratto.
Il coding non è morto. Sta solo cambiando forma. Come ogni tecnologia, anche questa ucciderà i pigri, i mediocri, i replicanti. Ma darà strumenti potentissimi a chi sa ancora cosa significa costruire. Per davvero. Il futuro non è degli ingegneri che scrivono codice. È degli ingegneri che sanno perché quel codice esiste e che, magari, sanno anche scrivere un buon prompt.