
Quando Donald Trump dichiara che uno spot è “the hottest ad out there”, i mercati reagiscono. Lo hanno fatto ancora una volta, questa volta con un’impennata del titolo American Eagle Outfitters, che ha registrato un +18% intraday, il massimo guadagno giornaliero da maggio 2024. Il motivo? Un paio di jeans, due occhi azzurri, una battuta ambigua e una strategia di marketing così sfacciatamente efficace da far impallidire i manuali di branding. Benvenuti nell’era del genetic advertising, dove il confine tra provocazione commerciale e allusione ideologica è sempre più sottile, scivoloso, e soprattutto redditizio.
La protagonista è Sydney Sweeney, la star in ascesa di “Euphoria” e “The White Lotus”, catapultata in prima linea nella guerra culturale americana grazie a uno spot in cui dichiara, con sguardo seducente: “My jeans are blue”. Fin qui tutto normale, quasi banale. Poi arriva la frase che scatena il pandemonio algoritmico: “Genes are passed down from parents to offspring often determining traits like hair color, personality and even eye color”. Un gioco di parole, certo. Ma anche un gioco pericoloso, soprattutto in un paese che trasforma ogni pixel in un referendum politico. Non è solo marketing: è manipolazione semantica vestita di denim, confezionata per il pubblico SGE (Search Generative Experience) e tarata chirurgicamente per dividere, polarizzare e vendere.
L’uso intenzionale della parola “genes” in un contesto visivo che esalta i tratti fenotipici della Sweeney — bionda, occhi azzurri, carnagione diafana — ha fatto scattare l’allarme tra critici, attivisti e analisti culturali. Alcuni hanno parlato apertamente di eugenetica mascherata. Altri, più cinici o forse semplicemente assuefatti, hanno liquidato il tutto come un’esagerazione woke. In realtà, la verità è più spietata: la pubblicità non è né razzista né innocente. È semplicemente efficace. E questo è il vero problema.
American Eagle lo sapeva benissimo. Quando il brand ha lanciato la campagna “Sydney Sweeney Has Great Jeans” il 23 luglio, sapeva di toccare una corda sensibile, anzi sensazionalistica. Le azioni sono salite immediatamente. Il sentiment era euforico. Poi, come previsto, è arrivato il backlash. E il solito balletto mediatico: chi difende la libertà creativa, chi denuncia l’omologazione estetica, chi grida al suprematismo bianco. Tutto secondo copione. Tutto calcolato. Perché nel capitalismo algoritmico non esistono più reazioni spontanee, ma solo KPI.
Donald Trump, da consumato esperto di attenzione mediatica, non si è lasciato sfuggire l’occasione. Ha definito lo spot “the HOTTEST ad out there” e aggiunto che i jeans American Eagle “are flying off the shelves”. Poi ha cancellato un post precedente dove aveva scritto “Sydney” con l’errore di un copia-incolla troppo frettoloso. I suoi fan non hanno notato. I suoi detrattori hanno gridato alla superficialità. Intanto, l’engagement è salito, le ricerche Google pure, e i volumi di traffico sul sito di American Eagle hanno iniziato a crescere in parallelo.
Non è solo una questione di branding, ma di strategia neuro-visiva. Il viso di Sweeney è stato scelto non per caso, ma per la sua capacità di attivare simultaneamente le aree limbiche legate alla bellezza, alla nostalgia e alla tensione sociale. Chi guarda lo spot non compra un jeans. Compra un’identità. O, almeno, l’illusione di averne una. È marketing genetico, nel senso più freddamente tecnico del termine: segmentazione comportamentale spinta, costruzione narrativa e targeting iper-specializzato.
I dati confermano la bontà dell’operazione. Secondo Bloomberg Second Measure, Similarweb e Placer.ai, da metà luglio a fine mese, il traffico web verso American Eagle è salito sensibilmente, mentre le visite fisiche ai negozi sono calate. Nessuna sorpresa. Il consumatore digitale post-pandemico vive dentro TikTok, si emoziona su Threads e compra sotto l’influenza di Donald Trump. Lo store fisico? Un relicto, utile solo come scenografia per i contenuti UGC (User Generated Content) su Instagram.
La concorrenza, nel frattempo, osserva. Abercrombie & Fitch mostra trend simili, ma senza lo stesso picco mediatico. Manca l’elemento virale. Manca il “fattore Sweeney”. Manca, soprattutto, il coraggio — o il cinismo — di giocare con il fuoco semantico. Ma nel mondo dell’advertising contemporaneo non vince chi ha il prodotto migliore, bensì chi sa innescare la polemica più redditizia. L’economia dell’indignazione, ormai, ha un ROI superiore al content marketing tradizionale.
C’è un altro aspetto da considerare. L’ad di American Eagle non è stato pensato per i baby boomer né per i millennial nostalgici. È un prodotto perfettamente calibrato per la generazione Z e la generazione Alpha. Non vende jeans. Vende memes, ironia meta-narrativa, auto-riferimenti postmoderni e micro-identità culturalmente liquide. Il gioco di parole “jeans/genes” non è un errore. È un messaggio cifrato per nativi digitali abituati a leggere in secondo, terzo e quarto grado.
Se oggi ci indigniamo per una battuta sull’ereditarietà genetica, forse domani celebreremo la prossima trovata pubblicitaria in cui un algoritmo selezionerà il testimonial perfetto in base ai tratti somatici più performanti nei test A/B. L’umanità non è mai stata così targettizzata, eppure così facilmente manipolabile. Nel mondo delle AI generative, dove ogni parola è un prompt e ogni immagine un dato, lo storytelling è l’arma finale.
Sydney Sweeney, con la sua frase apparentemente innocente, ha involontariamente scritto una lezione di marketing per il futuro. Le “genes” non determinano solo il colore degli occhi, ma la direzione delle Borse. I CEO dovrebbero prenderne nota. I marketer lo hanno già fatto. I politici, come sempre, ci sono arrivati prima. E i jeans, nel frattempo, volano davvero via dagli scaffali.