C’è un momento preciso in cui capisci che la Silicon Valley non gioca più a scacchi, ma a Risiko con carri armati digitali. L’acquisizione di Statsig da parte di OpenAI per 1,1 miliardi di dollari, seguita a ruota dall’acquisto di Solver da parte di Nvidia, non è un dettaglio finanziario da colonna economica, ma il sintomo evidente che la guerra per il controllo dell’intelligenza artificiale non è più una corsa alla tecnologia, ma una lotta feroce per chi possiede il cuore stesso della sperimentazione e della produttività. La keyword è “acquisizioni AI”, ma il sottotesto è molto più cupo: il consolidamento del potere passa dall’assorbimento sistematico delle startup che avrebbero dovuto rappresentare l’alternativa.
OpenAI, già nel mirino per la sua posizione quasi monopolistica sulla generative AI, ha deciso che la sperimentazione dei prodotti non poteva più rimanere un’estensione marginale. Statsig, startup di product analytics, era stata celebrata nel 2023 come uno dei gioielli nascosti dell’ecosistema tecnologico. Con un colpo da 1,1 miliardi in azioni, Sam Altman ha fatto quello che la Silicon Valley conosce da decenni: inglobare il talento e riscriverne il destino. Vijaye Raji, fondatore di Statsig, non sarà più un outsider che sfida i giganti, ma il nuovo CTO delle applicazioni di OpenAI, responsabile diretto di ChatGPT e Codex. Il che significa, in termini concreti, che l’azienda ha deciso di legare il ciclo di vita del suo prodotto di punta al test continuo e alla sperimentazione guidata dai dati.
Nvidia invece ha scelto un’altra strategia, apparentemente più umile, ma in realtà più subdola. Con Solver, una piccola startup di coding AI che aveva raccolto appena 8 milioni di dollari, Jensen Huang manda un segnale chiaro: non basta possedere il silicio, bisogna dominare anche il software che plasma gli sviluppatori. Solver non è Run.ai né Deci né OctoAI, tutte acquisizioni mirate a ottimizzare l’uso dei chip Nvidia. Qui si tratta di entrare direttamente nel flusso di lavoro dei programmatori, di prendere il coding AI e farlo girare su hardware proprietario, trasformando i developer stessi in clienti cauterizzati dentro l’ecosistema Nvidia.
Chi osserva questi due deal con occhio cinico, però, non può non notare il paradosso. OpenAI e Nvidia stanno di fatto uccidendo l’illusione che la nuova ondata di startup AI possa sfidare i colossi. L’ecosistema che si era venduto come aperto, collaborativo, con possibilità infinite per piccole aziende agili, viene ora inghiottito in pacchetti miliardari che trasformano i potenziali competitor in dipendenti stipendiati. È il classico ciclo darwiniano della tecnologia, solo che stavolta è accelerato da una fame di dominio che ricorda più le logiche di Wall Street anni Ottanta che la narrativa utopica delle startup da garage.
Chi si ricorda del 2006, quando Google comprava YouTube e Facebook ingoiava Instagram pochi anni dopo, sa che il gioco delle acquisizioni è vecchio quanto Internet. Ma qui la posta è molto più alta. Statsig rappresenta il controllo della sperimentazione di prodotto. Solver incarna la capacità di automatizzare il lavoro degli sviluppatori. Insieme, queste mosse segnano una trasformazione strutturale: le aziende che guidano l’intelligenza artificiale non stanno più solo producendo modelli, ma stanno costruendo un impero verticale che va dal chip alla sperimentazione fino all’esperienza utente.
I dettagli interni raccontano una storia ancora più inquietante. Kevin Weil, Chief Product Officer di OpenAI, viene dirottato sulla ricerca, a capo di una divisione chiamata “OpenAI for Science”. Nome innocente, missione dirompente: una piattaforma AI per accelerare la scoperta scientifica. Tradotto, significa un laboratorio in cui la scienza diventa un algoritmo, e i dati non sono più solo la materia prima del marketing, ma il carburante di un’intera industria del sapere. Intanto Fidji Simo, ex Uber e oggi CEO delle Applicazioni di OpenAI, prende il controllo di tutto il product management. Srinivas Narayanan, altro pezzo grosso, diventa CTO delle applicazioni B2B. In una sola mossa, OpenAI ha centralizzato le sue operazioni come un esercito che si prepara a una campagna lunga e costosa.
Nvidia, dal canto suo, non si accontenta più di vendere GPU a prezzo d’oro. Con Solver mette un piede in un terreno che fino a ieri sembrava marginale: gli agenti di programmazione. Non è un caso isolato, perché la narrativa “AI che scrive codice” è oggi uno dei filoni più redditizi, non tanto per il risparmio di tempo, ma per la possibilità di rendere gli sviluppatori dipendenti da strumenti che girano esclusivamente su infrastrutture proprietarie. L’acquisizione di Solver significa che Nvidia non vuole solo essere la base computazionale, ma anche la mano invisibile che guida il modo stesso in cui viene scritto il software del futuro.
Chi osserva i mercati sa che queste mosse hanno anche un valore simbolico. OpenAI che paga 1,1 miliardi in azioni per una startup è un messaggio: “le nostre azioni valgono abbastanza da essere valuta sovrana”. Nvidia che compra una startup da 8 milioni e la ingloba nella sua macchina da trilioni di dollari mostra invece l’altro lato: anche le briciole diventano diamanti se incastonate in una corona di silicio.
C’è un dettaglio che i comunicati stampa si guardano bene dal sottolineare. Con ogni acquisizione, il grado di concentrazione aumenta. In un mercato che si vende come competitivo, stiamo assistendo a un consolidamento quasi da oligopolio. OpenAI controlla il software conversazionale e la sperimentazione. Nvidia domina l’hardware e punta a controllare anche la logica degli sviluppatori. Google, Microsoft e Amazon osservano e rispondono con le loro strategie. Le startup, quelle che un tempo sognavano di cambiare il mondo, oggi sembrano pedine da muovere o sacrificare.
Qualcuno potrebbe obiettare che queste acquisizioni non cambiano la sostanza, che sono normali operazioni di mercato. Ma basta guardare il curriculum dei protagonisti per capire che siamo davanti a un cambio di passo. Vijaye Raji, ex Microsoft, non è un neofita. Kevin Weil, già a Instagram e Twitter, rappresenta l’ennesimo pezzo di una diaspora di manager che si spostano come generali da un campo all’altro della guerra tecnologica. Ogni mossa è calcolata per ridurre l’incertezza e massimizzare il controllo.
La domanda che rimane sospesa è se questo trend porterà a più innovazione o a un’epoca di stagnazione travestita da progresso. Perché quando i grandi mangiano i piccoli, spesso resta poco spazio per la sperimentazione vera.
Eppure c’è anche un lato ironico che non si può ignorare. Le stesse aziende che predicano il futuro della collaborazione uomo-macchina, della democratizzazione della conoscenza, della creatività aumentata, stanno costruendo un impero che ha poco di democratico e molto di feudale. Sam Altman e Jensen Huang giocano a fare i signori rinascimentali, collezionando botteghe di talento per arricchire le loro corti. Le startup non sono più rivoluzionarie, ma mercenarie in cerca di un padrone.
Il futuro dell’intelligenza artificiale, se letto alla luce di queste acquisizioni, non è una corsa aperta, ma un gioco a porte chiuse. Chi possiede i chip e chi controlla la sperimentazione di prodotto definirà le regole. Gli altri, inclusi gli utenti finali, dovranno solo adattarsi. E forse il paradosso più crudele è che il mercato, pur sapendo tutto questo, applaude.