Oracle cloud revenue è la nuova ossessione dei mercati. Non è più solo una voce nei bilanci, ma un mantra ripetuto da analisti, investitori e commentatori che hanno trovato nel colosso guidato da Safra Catz e Larry Ellison il nuovo cavallo da corsa dell’intelligenza artificiale. La cifra magica è 144 miliardi entro il 2030. Un numero che non dice nulla e dice tutto, perché non è soltanto una proiezione contabile ma un racconto di potere, una narrativa di egemonia tecnologica che vuole far sembrare inevitabile ciò che, in realtà, è ancora altamente incerto. Quando un titolo vola del 28% in after-hours non per gli utili ma per le promesse, si capisce che non siamo davanti a un trimestrale, ma a un rito collettivo.
Il paradosso è che Oracle ha mancato le aspettative di ricavi e utili, ma nessuno se ne è curato. A Wall Street l’unica cosa che conta è la traiettoria esponenziale disegnata sull’orizzonte. È come guardare una startup che racconta di avere un piano per conquistare Marte: il presente non interessa, conta solo il grafico che sale. Quando i numeri futuri superano la capacità di calcolo del cervello umano, si crea un’illusione di grandezza che diventa essa stessa valore di mercato. Oracle cloud revenue è questo, oggi. Una promessa che vale più della realtà.
Il dato più ipnotico è quello delle performance obligation: 455 miliardi di backlog contrattuale. Un aumento del 359% in un anno. Un’esplosione che somiglia più a un’anomalia contabile che a un percorso ordinato di crescita. Ma chi se ne importa se la statistica sembra distorta, l’importante è che la cifra sia colossale. Gli investitori non guardano più al debito, ai margini o al costo del capitale. Guardano al fatto che Oracle è diventata il magazzino di fiducia per i clienti più desiderati dell’era AI. Meta, xAI, OpenAI: la lista è una parata di nomi che fa brillare gli occhi ai trader come luci di Natale.
Il ruolo delle Nvidia GPU in questa storia non è secondario, è il cuore pulsante della narrativa. Oracle non produce chip, ma ha fatto la mossa più semplice e più geniale: comprarne a camionate e rivenderne la potenza di calcolo attraverso la sua AI infrastructure. È un modello da broker del futuro, dove la materia prima non è il petrolio o il rame ma la capacità di calcolare. Safra Catz e Larry Ellison hanno capito che in questo mercato vince chi controlla l’accesso ai chip, non chi scrive le linee di codice. È l’economia dell’hardware mascherata da software.
C’è qualcosa di sorprendente nel vedere Oracle, storicamente percepita come una compagnia solida ma ingessata, improvvisamente reinventarsi come protagonista assoluta della rivoluzione AI. È come se un vecchio attore di Hollywood che nessuno più chiamava per un ruolo, improvvisamente ottenesse la parte principale nel film dell’anno. Wall Street ama i comeback, soprattutto se sono accompagnati da numeri che sfidano la gravità. Ma il rischio è che la trama si trasformi in una sceneggiatura troppo perfetta per essere credibile.
Un’altra cifra che fa sorridere è l’aumento del capex previsto: 35 miliardi nel 2026, contro i 21 miliardi dello scorso anno. Una crescita del 65% nel giro di due anni. Si potrebbe pensare che sia il segno di una strategia aggressiva e lungimirante. O forse è solo la corsa disperata a non rimanere indietro rispetto ad Amazon, Google e Microsoft. In fondo il cloud non è un business in cui si compete con l’ingegno, ma con la quantità di cemento, acciaio e silicio che riesci a piazzare nei data center. Chiunque parli di innovazione dimentica che la vera gara è chi costruisce più velocemente capannoni pieni di server.
L’elemento teatrale della vicenda è lo Stargate project, l’iniziativa da 500 miliardi lanciata alla Casa Bianca con OpenAI e SoftBank. Una cifra che sembra presa più da un romanzo di fantascienza che da un business plan. Nessuno ha spiegato cosa sia davvero, ma il nome basta a stimolare l’immaginario. Stargate suona come la promessa di un’infrastruttura intergalattica, non come un centro dati nel Midwest. Oracle non ha fornito dettagli, ma forse non servono. A volte basta evocare un’immagine per trasformare la percezione di un’azienda.
I commenti degli analisti sono la parte più divertente di questa epopea. “Sono rimasto scioccato”, “un trimestre monumentale”, “non ho parole”. Sembra quasi che abbiano assistito a un miracolo e non a una call trimestrale. In realtà, stanno recitando il copione che il mercato vuole sentire. Quando il prezzo di un titolo sale del 70% in un anno, nessuno vuole essere lo scettico che rovina la festa. Meglio esagerare nelle lodi, tanto poi se le previsioni non si avverano ci sarà sempre un’altra narrativa a cui aggrapparsi.
Oracle cloud revenue a 144 miliardi entro il 2030 è la perfetta arma di distrazione. Invece di guardare alla struttura dei costi, agli impatti sulle retribuzioni dei dipendenti (licenziamenti e stop a bonus inclusi), agli effetti reali sui margini, si guarda al numero tondo e monumentale. È un trucchetto che funziona sempre: fissare un obiettivo lontano nel tempo per giustificare qualsiasi sacrificio nel presente. La Silicon Valley vive di questo.
L’aspetto più paradossale è che molti dei clienti che si rivolgono a Oracle lo fanno non perché adorano la sua tecnologia, ma perché Microsoft, Google e Amazon hanno saturato la propria capacità. Oracle diventa il magazzino esterno dei big. È come se le grandi banche di Wall Street avessero esaurito lo spazio nelle proprie cassette di sicurezza e mandassero i clienti in una filiale di periferia. Questo non significa che Oracle non stia guadagnando, ma pone un interrogativo sulla natura organica della sua crescita. È davvero domanda per Oracle, o è un effetto collaterale del boom AI?
Larry Ellison non è nuovo a queste reinvenzioni. Negli anni ha sempre trovato il modo di trasformare Oracle in qualcosa di diverso dal previsto. Dal software alle basi dati, dalle applicazioni al cloud, ora all’intelligenza artificiale. È un sopravvissuto seriale, e questa volta ha trovato nella scarsità di chip il carburante perfetto per il suo ritorno alla ribalta. La differenza è che oggi i mercati sono disposti a scommettere cifre astronomiche su qualunque promessa che contenga la parola AI.
Il fatto che Oracle cloud ricavi sia passata da 10 miliardi a 18 miliardi in un anno, con un tasso di crescita del 77%, è senza dubbio impressionante. Ma il salto logico dal presente al futuro è vertiginoso. Da 18 miliardi a 144 miliardi in cinque anni significa una crescita che renderebbe Oracle non solo un player rilevante, ma un dominatore quasi assoluto. È realistico o è solo la più grande operazione di marketing finanziario degli ultimi anni?
Ma le Remaining Performance Obligation non sono ‘illusioni’ o ‘promesse’: sono contratti firmati e da rispettare per la “delivery”. Sono entrate certe, che giustificano costi crescenti per poterle incassare.
La verità, come sempre, sta nel mezzo. Oracle ha trovato la finestra giusta nel momento giusto. Il mercato AI ha bisogno disperato di Nvidia GPU e di infrastrutture in grado di gestire il carico. Oracle fornisce entrambe le cose, e i clienti più prestigiosi ci sono. Ma i numeri proiettati sembrano scritti per stupire più che per descrivere. Wall Street ha scelto di credere alla versione epica. Quando i mercati hanno voglia di sogni, la logica può aspettare.
Oracle cloud revenue non è solo una linea di bilancio. È un esperimento sociale sulla capacità di un’azienda di trasformare contratti futuri in entusiasmo presente. È un test su quanto il mercato sia disposto a pagare per l’illusione di certezza in un settore in cui nulla è certo. È la prova che nell’era dell’AI la narrativa vale più della tecnologia.