L’annuncio di Edi Rama non è passato inosservato, e non poteva esserlo. Il primo ministro albanese ha presentato al mondo il suo nuovo ministro virtuale, un’entità battezzata Diella, generata dall’intelligenza artificiale e incaricata di gestire i pubblici appalti. L’idea, a dir poco spavalda, è che solo un algoritmo potrà rendere la macchina amministrativa finalmente immune dal vizio nazionale della corruzione. Rama ha parlato con orgoglio della prima “ministra” che non esiste in carne e ossa, ma che promette di rendere ogni gara d’appalto cristallina e priva di intrighi, come se il codice fosse per definizione più puro dell’uomo. È una narrazione affascinante, quasi hollywoodiana, ma anche un salto nel buio. Perché affidare a un’intelligenza artificiale la gestione di miliardi di fondi pubblici significa riscrivere non solo le regole della politica, ma soprattutto quelle della fiducia.
Ogni volta che la parola corruzione si accosta ai Balcani, gli osservatori internazionali sospirano come se si trattasse di una maledizione inevitabile. Albania compresa. Le inchieste giornalistiche raccontano da anni di appalti truccati, di oligarchi in salsa mediterranea, di organizzazioni criminali che hanno trovato nelle procedure pubbliche una lavanderia efficace per i proventi di droga e traffici d’armi. Rama ha deciso di spezzare questa narrativa con un gesto teatrale: sostituire il funzionario umano con un avatar. Una mossa che sembra uscita da un manuale di trasformazione digitale scritta per sedurre Bruxelles, perché il premier sa che l’accesso all’Unione Europea non passa solo dai bilanci macroeconomici, ma da una guerra simbolica contro la corruzione. È la messa in scena perfetta, perché chi può corrompere un algoritmo?
L’intelligenza artificiale entra così a gamba tesa nella politica, non più come strumento di supporto, ma come soggetto politico, dotato di un titolo ministeriale e di un ruolo decisionale. Un precedente che rischia di diventare un laboratorio globale. Se Diella riesce a mantenere le promesse di trasparenza, il modello potrebbe essere replicato altrove, magari in quei Paesi che fingono di avere un sistema anticorruzione mentre continuano a ingrassare le proprie élite. Ma c’è un dettaglio che Rama ha elegantemente sorvolato: nessun algoritmo nasce neutrale. Ogni AI è un prodotto delle scelte dei suoi creatori, dei dataset che la alimentano, dei bias che inevitabilmente la attraversano. Pensare che un’intelligenza artificiale sia immune dalla manipolazione è ingenuo o, peggio, strategicamente conveniente. Perché il rischio non è solo che qualcuno la corrompa dall’esterno, ma che la logica stessa con cui è stata progettata porti dentro i germi del favoritismo.
Chi conosce la trasformazione digitale sa che ogni passaggio radicale comporta due illusioni. La prima è l’illusione dell’efficienza: basta introdurre un software per rendere più veloce e pulito un processo. La seconda è l’illusione dell’oggettività: se decide una macchina, allora non decide più l’uomo. Entrambe sono fragili. Il software può essere più veloce, certo, ma dipende da chi lo controlla, da chi lo aggiorna, da chi decide le eccezioni. E la macchina non fa altro che replicare, su scala più ampia, il sistema di valori che le è stato infuso. In questo senso, l’intelligenza artificiale non è mai neutrale, è un prolungamento culturale delle mani che l’hanno addestrata. Dunque Diella sarà davvero un ministro senza interessi personali, ma non sarà mai un ministro senza interessi di sistema.
È curioso che Rama abbia scelto di presentarla con un nome che significa “sole” in albanese. Una metafora potente, certo, ma anche un po’ presuntuosa. Il sole illumina tutto e non lascia angoli bui. Diella, nella retorica del premier, dovrebbe portare la luce della trasparenza in un sistema amministrativo dove le ombre sono la regola. Eppure la luce può anche accecare, può bruciare, può trasformarsi in un riflettore utile a nascondere proprio ciò che dovrebbe svelare. Il rischio è che l’intelligenza artificiale venga usata più come foglia di fico digitale che come reale strumento di pulizia. Dire che un sistema è “100 per cento corruzione-free” non è un dato tecnico, è uno slogan. Nessun sistema, umano o artificiale, è immune dal fallimento. Promettere il contrario è marketing politico, non governance.
Dietro questa narrazione c’è però un messaggio molto più ambizioso. Rama vuole posizionare l’Albania come pioniere della trasformazione digitale in Europa. È un colpo di scena strategico, perché l’immagine che ancora domina nei media occidentali è quella di un Paese periferico, segnato da una fuga di cervelli costante e da economie sommerse. Presentare un ministro AI è un modo per dire: guardateci, non siamo più il retrobottega d’Europa, ma il laboratorio dove si sperimenta il futuro. L’Unione Europea, ossessionata dalla propria incapacità di innovare con velocità, guarda con interesse a chi osa fare mosse radicali. Rama ha colto l’occasione, e con un’operazione di branding politico ha trasformato l’intelligenza artificiale in uno strumento di soft power.
La domanda vera è se la società albanese è pronta per questa accelerazione. Un ministro AI che firma digitalmente appalti non elimina la corruzione endemica se allo stesso tempo il sistema giudiziario, le forze dell’ordine e le istituzioni locali rimangono vulnerabili a pressioni e clientele. La trasformazione digitale non è mai solo questione di software, ma di cultura, di governance, di capacità di reggere l’urto del cambiamento. Introdurre un algoritmo in un contesto istituzionale fragile può produrre effetti paradossali, come il consolidamento delle stesse pratiche che si vogliono estirpare, solo mascherate da un’aura di modernità.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’intelligenza artificiale non può essere corrotta con una busta di contanti. Vero. Ma può essere corrotta con una riga di codice. L’iniezione di dati falsi, la manipolazione dei parametri, la creazione di backdoor invisibili: la corruzione digitale non ha bisogno di strette di mano, ha bisogno di competenze tecniche e accesso privilegiato. In un Paese che vuole dimostrare al mondo la propria trasparenza, basta un attacco informatico mirato per far crollare la fiducia nell’intero sistema. La corruzione diventa così meno visibile, ma non meno presente. Anzi, più sofisticata. Ed è qui che la narrazione politica di Rama si scontra con la realtà: non si tratta di eliminare il fenomeno, ma di spostarlo di livello, di trasformarlo da tangente materiale a vulnerabilità digitale.
C’è un altro aspetto sottile che rende questa vicenda un caso da manuale di geopolitica digitale. Rama sa che l’intelligenza artificiale è oggi il linguaggio con cui si comunica modernità, e che presentare Diella come la prima ministra virtuale al mondo proietta l’Albania sulla mappa mediatica globale. È un’operazione di posizionamento più che di governance. La Silicon Valley osserva con scetticismo, Bruxelles con curiosità, le cancellerie europee con diffidenza. Perché se funziona, la domanda diventerà inevitabile: perché non introdurre un ministro AI anche in Italia, in Francia o in Germania per vigilare sugli appalti pubblici? Perché lasciare il monopolio della decisione agli esseri umani, notoriamente fallibili e inclini al compromesso, quando un algoritmo può gestire miliardi con un click? È una domanda retorica, ma anche esplosiva, perché mina le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa.
L’idea che un governo possa essere più efficiente con meno esseri umani e più algoritmi affascina e inquieta allo stesso tempo. Affascina perché promette efficienza, trasparenza, ordine. Inquieta perché sposta il baricentro della responsabilità. Chi è responsabile se Diella sbaglia un calcolo, se un algoritmo esclude un’azienda corretta o favorisce una controllata da interessi occulti? Rama ha glissato su questo punto, ma la domanda rimane. Senza un chiaro quadro di supervisione umana, il rischio è che la politica si nasconda dietro l’algoritmo per giustificare ogni decisione. Non l’ho deciso io, lo ha deciso il ministro AI. È la versione aggiornata della scusa burocratica: non è colpa mia, è colpa del sistema.
Si apre così un capitolo nuovo della trasformazione digitale. Non più la digitalizzazione dei servizi come semplice comodità, ma come architettura di potere. L’intelligenza artificiale diventa un attore istituzionale, e questo cambia le regole del gioco. I cittadini non interagiranno solo con funzionari in carne e ossa, ma con avatar che amministrano procedure vitali. La fiducia nello Stato passa attraverso interfacce digitali, la legittimità politica si mescola con la user experience. È un passaggio epocale, e l’Albania, paradossalmente, si trova in prima linea.
Forse la vera provocazione non è che Rama abbia creato il primo ministro AI, ma che ci abbia creduto abbastanza da metterlo in un governo reale. È il segnale che la politica europea non può più permettersi di trattare l’intelligenza artificiale come un gadget tecnologico. È entrata nelle istituzioni, e da qui in poi sarà impossibile ignorarla. Resta da capire se Diella sarà ricordata come il primo esperimento di una democrazia algoritmica o come un abile trucco di marketing per accelerare il percorso europeo dell’Albania. In entrambi i casi, il messaggio è arrivato forte e chiaro: la corruzione non si combatte più solo con magistrati e poliziotti, ma anche con codice e algoritmi. E questo, per un continente abituato a discutere all’infinito di procedure, è forse la lezione più destabilizzante di tutte.
