
Una svolta epocale (forse) nel conflitto mediorientale, alla giornata 734: Trump afferma che Israele e Hamas hanno firmato la “prima fase” del suo piano di pace, con rilascio di ostaggi e ritiro limitato delle truppe; Netanyahu promette: “Riporteremo tutti a casa”. L’intesa, se confermata integralmente, potrebbe costituire l’accordo più rilevante da inizio della guerra del 2023.
Ma prima di cantare vittoria, serve uno sguardo freddo sulle informazioni affermate, sui margini di incertezza e sui rischi strutturali.
Trump dichiara che Israele e Hamas «hanno entrambi firmato la prima fase del nostro piano di pace», che gli ostaggi torneranno lunedì, che Israele ritirerà le truppe su una «linea concordata». (Annuncio riportato da Reuters) Nel testo ufficiale si parla di rilascio degli ostaggi (tutti i 20 che si ritiene siano ancora vivi) in cambio della liberazione di circa 1.700–1.950 prigionieri palestinesi. Il ritiro israeliano, in questa fase, coprirebbe il grosso di Gaza, con un arretramento entro linee prestabilite
Netanyahu ha risposto: «Con l’aiuto di Dio, riporteremo tutti a casa». Secondo Haaretz, Stati Uniti e Qatar avrebbero garantito ad Hamas che Israele non riprenderà i combattimenti almeno al termine della prima fase.
Hamas, da parte sua, conferma l’accordo che implica il ritiro, lo scambio di prigionieri e l’entrata di aiuti umanitari.
Tuttavia, una fonte vicina a Hamas avverte che “il movimento dovrà affrontare le fasi più difficili del piano, tra cui il disarmo e l’esilio dei leader” termine del quale non si trova conferma diretta nei testi ufficiali ma che appare come condizione fortemente richiesta da Israele.
L’ora della firma è fissata per le 12 locali (le 11 in Italia), con l’impegno a liberare quasi duemila prigionieri palestinesi. Dopo la sottoscrizione l’esecutivo israeliano si riunirà per approvare formalmente l’accordo.
L’Italia, attraverso Meloni e il ministro Tajani, appoggia l’intesa e si offre di partecipare alla fase di monitoraggio: pronto a inviare aiuti, contribuire al cessate il fuoco e anche a effettuare un contributo militare se sarà istituita una forza internazionale di pace per la “riunificazione della Palestina”.
Se confermato nella sostanza, questo accordo segnerebbe un’inversione radicale rispetto alla prosecuzione del conflitto: dalle armi e dal terreno al dialogo e alla cessazione degli scontri.
Ma quanto c’è di concreto e quanto di potenzialmente propagandistico? Ecco i nodi che restano irrisolti.
Primo: le “fasi successive” saranno assai più problematiche del primo scambio ostaggi-prigionieri. La dismissione militare di Hamas, l’esilio o la decapitazione dei suoi vertici, la garanzia che non si riorganizzi in segreto: su questi capi, fino ad oggi, non è stato raggiunto consenso. Israele pretende il disarmo completo; Hamas rifiuta che si smantelli l’intero apparato prima della verifica del cessate il fuoco.
Secondo: il controllo del territorio di Gaza. Se Israele si ritira entro linee concordate, chi controllerà la “zona di cerniera”? Chi garantirà che non riprenda il fuoco? L’ipotesi di una forza internazionale multistakeholder è evocata, ma nessun paese ha fino ad oggi confermato la disponibilità per un dispiegamento su larga scala in un contesto ancora instabile.
Terzo: il “costi” degli ostaggi liberati e dei prigionieri palestinesi. L’idea di liberare fino a 1 950 detenuti è riportata da fonti israeliane e palestinesi. Ma il testo ufficiale dell’accordo non è stato reso pubblicamente indiscriminato nei dettagli finora, lasciando margini per interpretazioni divergenti sul “quasi duemila”.
Quarto: la credibilità. In due anni più tentativi di tregua e scambi sono stati fatti e disattesi. Molti a Gaza e in Israele reagiranno con scetticismo — «abbiamo sentito queste promesse decine di volte», mormorano le famiglie degli ostaggi e i sopravvissuti.
Quinto: la tempistica. Trump prevede che i corpi di chi è stato ucciso vengano restituiti lunedì; ma nella cronologia già registrata, spesso i tempi si sono dilatati e le procedure per identificare resti, verificare integrità, negoziati sotto tutela internazionale possono richiedere giorni o settimane.
Infine, le reazioni regionali e internazionali: Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia figurano già come mediatori garanti dell’accordo. L’Unione Europea e l’Italia hanno espresso sostegno e propensione a partecipare nel post-accordo come attori operativi.
Se questo non è un bluff diplomatico, è la scommessa più rischiosa e ambiziosa nella recente storia del conflitto israelo-palestinese. La posta: migliaia di vite, una striscia distrutta, una pace fragilissima da cementare.