
Google ha appena annunciato un passo che sembra quasi una contraddizione in termini: finanziare una centrale a gas con cattura e stoccaggio del carbonio (CCS) per alimentare i propri data center, sostenendo così la crescita dell’intelligenza artificiale ma, allo stesso tempo, cercando di restare “verde”. Il progetto, chiamato Broadwing Energy, sorgerà a Decatur, Illinois, e Google si impegna ad acquistare la maggior parte dell’energia prodotta. Il salto è audace e carico di ambiguità.
Secondo Michael Terrell, responsabile dell’Advanced Energy in Google, l’accordo è “first-of-its-kind” per un’azienda che supporta una centrale a gas con CCS. Broadwing catturerà circa il 90 % delle emissioni di CO₂ e le inietterà permanentemente in formazioni geologiche profonde, oltre a generare 400 MW di potenza. Il sito sarà parte di un impianto industriale ADM già dotato di infrastrutture per lo stoccaggio del carbonio. Il progetto dovrebbe entrare in funzione nel 2030.
Dal punto di vista strategico, Google afferma di aver considerato il gas + CCS come una delle tecnologie “firm”, ossia a fonte affidabile e continua, capace di sostenere i propri obiettivi di “energia carbon free 24/7”. Per Google, non basta che l’energia sia pulita in media su base annua — serve che lo diventi ogni ora, anche quando sole e vento latitano.
Nel frattempo, la domanda elettrica dei data center è destinata a esplodere. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) stima che entro il 2030 il consumo globale salirà a 945 TWh, circa il 3 % della domanda mondiale. Cina e Stati Uniti guideranno la crescita (circa l’80 % del totale). Google non è l’unica ad aver fiutato la valanga elettrica: da tempo le grandi tech sono in corsa a “garantirsi” energia sicura, bilanciando fonti rinnovabili con tecnologie emergenti.
Eppure l’entusiasmo dovrebbe essere temperato da un’analisi critica. Ossessionati dalla visione “energia pulita = buona”, molti dimenticano che il CCS è costoso, complesso e finora ha mostrato risultati contrastanti nel mondo reale. Alcuni progetti statunitensi, finanziati dal Dipartimento dell’Energia, non hanno mai raggiunto la commercialità. Inoltre, il fatto che la centrale rimanga a gas implica che perdite di metano (fughe) nella catena del gas possano erodere i potenziali benefici climatici e il CCS non affronta quel problema.
Un altro punto debole: il bilancio economico. Il costo del CCS — cattura, compressione, trasporto, stoccaggio e monitoraggio — resta elevato, così come l’incertezza regolatoria e l’accesso alle infrastrutture per lo stoccaggio. Google non ha divulgato i termini dell’accordo né il prezzo dell’energia acquistata. Senza incentivi pubblici robusti, accise sugliemissioni o politiche favorevoli, il modello rischia di restare un prototipo carosissimo.
Analogamente, la “promessa” del CCS come tecnologia abilitante per la decarbonizzazione può fungere da alibi per ritardare investimenti nelle rinnovabili. Se si sposa l’idea che “costruisco gas + catturo CO₂”, c’è il rischio morale: prolunghiamo la dipendenza da combustibili fossili invece di accelerare la transizione.
Nel contesto del mercato elettrico Usa, Google non è nuova ad approcci innovativi: ha siglato accordi con centrali geotermiche, nucleari modulari e idroelettriche (per migliaia di MW), diversificando il proprio “portafoglio energetico pulito”. Il quadro che emerge è un mosaico ibrido: non tutto può essere rinnovabile oggi, ma la strategia è “non mettere tutte le uova in un solo pannello solare”.
Dal punto di vista geopolitico, questa mossa è intrigante. Google — molto criticata per spostare tonnellate di CO₂ virtuale tramite offset e progetti distanti — qui si prende un rischio concreto: costruire infrastruttura fisica. Ma è anche una mossa che dà agli stakeholder (investitori ESG, regolatori, opinione pubblica) un argomento: “guardate, non stiamo solo facendo marketing verde, stiamo firmando con i cappelli in mano”.
Alla fine, la carta che Google gioca è quella del “modello di diffusione”: se Broadwing dimostra che gas + CCS può essere competitivo, l’azienda può replicare l’architettura in altri Stati Uniti, accelerando varietà di progetti simili. Se l’economia di scala funziona, il CCS potrebbe mutare da tecnologia per “progetti pilota” a vero pilastro di elettricità “low carbon dispatchable”.
Ma il diavolo è nei dettagli. Se la centrale non raggiungerà catture effettive al 90 %, se i costi operativi saliranno, se il mercato elettrico non riconoscerà adeguatamente i crediti di cattura carbone… il sogno rischia di diventare un buco nero finanziario. E, come ogni scommessa radicale, non esistono garanzie.