E’ “sinistramente” poetico nel tentativo russo di resuscitare l’idea di un missile nucleare a propulsione. Mentre il resto del mondo fatica a disintossicarsi dal petrolio, la Russia accende un reattore sotto le ali di un’arma volante e la chiama progresso. Il Burevestnik, orgoglio della propaganda di Putin, è stato presentato come il primo missile nucleare a propulsione russa con autonomia teoricamente illimitata. Sulla carta può volare per 14.000 chilometri, restando in aria per oltre 15 ore, pronto a colpire qualunque obiettivo sulla Terra. Nella realtà, assomiglia più a un “flying Chernobyl” che a una rivoluzione strategica.
Il Cremlino non è nuovo alla retorica del miracolo tecnologico. Ogni annuncio è calibrato per evocare il terrore dell’invisibile e la nostalgia dell’invincibilità sovietica. Ma dietro la facciata del potere assoluto, la fisica resta indifferente alle dichiarazioni televisive. Il concetto stesso di un missile alimentato da un reattore nucleare in miniatura è tanto affascinante quanto instabile. Serve un reattore leggero, resistente alle vibrazioni e capace di sopravvivere a temperature da inferno chimico. Finora nessuno, neppure gli Stati Uniti con il progetto Pluto negli anni Sessanta, è riuscito a renderlo operativo senza rischiare di disseminare radionuclidi lungo la traiettoria.
L’idea del Burevestnik è semplice nella teoria e impossibile nella pratica. Il missile non usa carburante convenzionale, ma sfrutta il calore generato dal nucleo del reattore per riscaldare l’aria in ingresso, espellendola a grande velocità e generando spinta. È una turbina nucleare volante, un motore a fissione dentro un tubo d’acciaio supersonico che attraversa nuvole, sabbia e tempeste magnetiche. Un capolavoro, se non fosse per il dettaglio trascurabile che ogni perdita di contenimento potrebbe trasformare il volo in una pioggia radioattiva globale.
Nel 2019, un’esplosione durante un test in un sito segreto russo causò la morte di sette scienziati. Per alcuni analisti, fu un fallimento del reattore del Burevestnik. Le autorità parlarono di “sistema a combustibile liquido”, ma le misurazioni di radioattività nella zona raccontarono un’altra storia. È il tipo di errore che l’Occidente archivia come “incidente industriale” e che Mosca trasforma in epopea patriottica. La lezione? Quando un missile nucleare cade, non serve l’impatto per fare danni. Basta che voli.
I tecnici parlano di due configurazioni: una “open-loop” in cui l’aria attraversa direttamente il reattore, generando inevitabili perdite radioattive, e una “closed-loop”, più sicura ma molto più pesante. La prima è il sogno dei generali e l’incubo degli ambientalisti. La seconda è il sogno degli ingegneri e l’incubo dei generali. In entrambi i casi, la gestione termica resta un rebus: come evitare che un reattore miniaturizzato surriscaldi le proprie strutture in volo, con un missile che deve restare stabile, invisibile e in moto continuo per ore?
La risposta è che non puoi. Eppure Putin insiste. Lo scopo non è militare ma psicologico. Il missile nucleare a propulsione russa non è un’arma pensata per essere usata, ma per essere temuta. È un oggetto narrativo, un simbolo di resilienza tecnologica in un paese sempre più isolato economicamente. Serve a ricordare all’Occidente che la Russia è ancora capace di reinventare il terrore atomico, anche a costo di avvelenare la propria atmosfera.
Dal punto di vista strategico, l’idea di un missile con autonomia infinita suona come il sogno di ogni deterrenza nucleare: colpire da qualsiasi direzione, senza preavviso. Peccato che la realtà radar non sia così indulgente. Il Burevestnik vola a velocità subsonica, visibile e tracciabile da sistemi moderni una volta scoperto. Gli analisti della Federation of American Scientists lo descrivono come “un’arma che vive più di quanto serva, ma muore troppo lentamente per essere utile”. In altre parole, un trofeo radioattivo con scarsa efficacia operativa.
La propaganda del Cremlino sostiene che il missile possa eludere le difese americane e volare sotto i radar. Ma la fisica della riflessione radar e la costanza delle emissioni termiche di un reattore smentiscono questa narrativa. Ogni oggetto che contiene un reattore nucleare in funzione è una torcia infrarossa nel cielo. L’unica variabile è se qualcuno abbia il coraggio di avvicinarsi abbastanza per spegnerla.
L’aspetto più surreale è che la Russia non ha ancora pubblicato alcuna prova verificabile del successo del test. Nessun dato sulle emissioni, nessun tracciamento satellitare, nessuna conferma indipendente. Le agenzie di monitoraggio norvegesi e svedesi, che controllano costantemente le emissioni radioattive nell’atmosfera, non hanno registrato alcuna anomalia significativa. Se il missile ha davvero volato per 14.000 chilometri, deve averlo fatto in un universo parallelo.
Il paragone con Chernobyl non è un’esagerazione giornalistica. È un richiamo storico. Chernobyl fu il monumento alla fiducia cieca nella tecnologia sovietica, costruita sull’orgoglio e collassata per arroganza. Il flying Chernobyl rappresenta la stessa hybris, ma travestita da deterrenza. È la tecnologia che ignora l’etica, l’innovazione che dimentica la biologia.
In termini geopolitici, il progetto serve anche a negoziare paura. Mostrare un’arma che nessuno ha, anche se non funziona, sposta i tavoli diplomatici. È una strategia antica: usare la minaccia dell’impossibile per mascherare l’impossibilità della minaccia. Nel breve periodo funziona. Nel lungo, corrode la credibilità scientifica e logora le risorse economiche. Ogni dollaro speso per un Burevestnik è un dollaro sottratto a un ospedale, a un laboratorio, a un futuro non contaminato.
Se la Russia riuscisse davvero a rendere operativo un missile del genere, il mondo dovrebbe rivedere i trattati sul disarmo e sulle emissioni radioattive in atmosfera. Ma il rischio più immediato non è strategico, è ecologico. Un solo guasto potrebbe trasformare un test in un disastro ambientale continentale. E la cosa più ironica è che la prima vittima sarebbe la stessa Russia, poiché gran parte delle traiettorie di prova si estendono sul suo stesso territorio artico.
Forse il vero messaggio del Burevestnik è che il progresso, quando è guidato dal bisogno di mostrare forza, diventa un’arma contro chi lo costruisce. È un avvertimento travestito da trionfo. Una lezione su come la tecnologia, senza limiti etici, finisce per rivelare il limite più grande di tutti: quello umano.