L’incontro di circa 100 minuti tra Trump e Xi, avvenuto a Busan sul margine del vertice APEC, ha portato a tagli tariffari, una pausa temporanea nei controlli sulle terre rare e impegni cauto-cooperativi in altre aree.
In particolare: gli Stati Uniti ridurranno i dazi sui beni cinesi legati ai precursori del fentanyl dal 20% al 10% (parte del pacchetto complessivo), abbassando il tasso medio da circa 57 % a 47 %.
La Cina, da parte sua, ha accettato di sospendere per un anno i nuovi controlli all’esportazione di terre rare che aveva introdotto in ottobre, e ha promesso di rinnovare (o rilanciare) acquisti di soia Usa per alleggerire la pressione sui contadini americani. Oltre al commercio, sono stati menzionati temi globali come l’Ucraina (a livello di “cooperazione” generica) e il traffico di fentanyl (con impegno cinese di lavorare per ridurne il flusso verso gli Stati Uniti).
Vale la pena notare che nessuna questione “core” è stata risolta: niente su Taiwan, niente sulle tecnologie più sofisticate (Blackwell chip, semiconduttori avanzati) e nessun impegno vincolante su meccanismi di enforcement robusti. Trump ha annunciato che i dazi verrebbero ridotti “ogni anno” con rinnovi (una formula che dà flessibilità, ma non certezza a lungo termine).
Il vertice produce una de-escalation tattica, non una rivoluzione strategica. Entrambe le parti avevano bisogno di respirare. Da un lato gli Usa sotto pressione interna (contadini, industria) e internazionale (mercati nervosi), dall’altro la Cina con crescita rallentata e tensioni politiche interne.
La Cina ottiene un riconoscimento implicito del suo ruolo, grazie ai gesti e al linguaggio diplomatico di Trump che ha parlato di “partner maggiore” e di summit “G2”. In termini di diplomazia simbolica, è un guadagno non trascurabile per Pechino.
Gli Usa ottengono alcune concessioni concrete, ma in cambio smussano un po’ le armi: riducono i dazi sui precursori del fentanyl, concedono una tregua su controlli e evitano lo scoppio di nuove sanzioni. In altre parole, non un’uscita trionfale ma un passo laterale che dà respiro.
Questo vertice segna anche che Washington preferisce dialogare piuttosto che spingere al collasso un sistema economico interdipendente. La contrapposizione dura non sparisce, semplicemente diventa più sofisticata (chips, AI, catene globali) piuttosto che frontale.
C’è però un rischio evidente: senza meccanismi di monitoraggio e senza pressioni interne forti su entrambe le parti, l’accordo potrebbe essere fragile e soggetto a inversioni di tendenza nelle fasi elettorali o in risposta a shock esogeni.
In Asia, questo summit manda segnali: gli alleati giapponesi e sudcoreani noteranno che gli USA non ignoreranno la Cina ma negozieranno con lei. La “zona grigia” della competizione tecnologica e delle reti appoggi diplomatici diventerà il terreno primario.
In tema di tecnologie e supply chain, il compromesso sulle terre rare è importante: interrompere i dazi o i controlli avrebbe avuto impatti pesanti sull’industria hi-tech globale (automobili elettriche, semiconduttori, difesa). Con questa sospensione, si compra tempo per ristrutturare filiere o ridurre dipendenze.
Per il mercato: reazioni moderate. I mercati non hanno applaudito come Trump si aspettava, segno che gli investitori analizzano i dettagli, non le battute ad effetto.
Sul fronte ucraino e geopolitico: non è chiaro quanto Pechino investirà per “collaborare” su Ucraina in modo concreto. L’impegno resta vago.
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