Immaginate di sfrecciare su un’autostrada italiana, con il sole che bacia le colline toscane e di essere sorpassati non da una Ferrari ruggente o una Lamborghini iconica, ma da una Dolphin Surf di BYD che sfreccia silenziosa, con un badge che ti suggerisce che per “realizzare ii tuoi sogni” non è più necessario rincorrere vecchie leggende del design tricolore. È un quadro surreale, quasi poetico nella sua ironia: l’Italia, culla dell’automotive, il Paese che ha inventato la velocità e lo stile su quattro ruote, si ritrova a fare da passerella per un’invasione elettrica Made in China, dove il 9% delle nuove immatricolazioni da gennaio a novembre 2025 ha il marchio di Pechino.

Non è fantascienza, ma realtà: con una quota di mercato che tocca il 6% per i produttori cinesi puri, più un 2% da assemblatori locali come DR Motors e un punto percentuale dalla galassia Volvo controllata da Geely, il Bel Paese sta diventando un laboratorio per la strategia espansiva di colossi come BYD e MG.

E mentre i numeri galoppano (BYD moltiplica per dieci i volumi, passando da 2mila a oltre 20mila unità, con una quota che balza all’1,5% annuo e quasi al 3% a novembre) ci si chiede: c’è spazio per il rilancio dell’industria italiana o siamo davanti ad un epilogo malinconico di un settore che da leader europeo si è ridotto al ruolo di comparsa?

La corsa delle auto cinesi in Italia non è un sprint isolato, ma parte da un dominio globale che Pechino ha orchestrato con maestria chirurgica. La Cina produce ormai il 38% delle vetture mondiali, superando USA, Giappone e India messi insieme, con 24,3 milioni di unità prodotte e vendute nei primi nove mesi del 2025, in crescita del 13% annuo. E l’elettrico? Qui il gigante asiatico accelera senza freni: oltre 11 milioni di veicoli a nuova energia, con una quota del 46% sul totale, grazie a un ecosistema di batterie e supply chain che l’Europa invidia e teme.

In Italia, sette gruppi dominano la scena – BYD, MG di SAIC, Geely, Chery con Omoda e Jaecoo, Changan, Leapmotor e Dongfeng – e i risultati parlano chiaro. La Dolphin Surf di BYD si piazza undicesima nelle vendite generali a novembre, mentre la ZS di MG entra nella top ten annua (dati Unrae). Nel full electric, a novembre, BYD e Leapmotor (alleato di Stellantis) rubano il podio, spingendo Tesla al terzo posto. Gli incentivi del MASE, con oltre 55mila voucher emessi e 6.500 non ancora validati, hanno dato la stura: le elettriche passano dal 5% al 12,2% delle immatricolazioni a novembre, con i cinesi che cavalcano l’onda dei modelli sotto i 20mila euro, segmento dove anche Ford Puma e Dacia provano a rispondere.

Ma dietro questi numeri luccicanti si nasconde una minaccia che va oltre il prezzo competitivo: le sovvenzioni statali di Pechino, un fiume di miliardi che ha gonfiato il settore EV cinese fino a creare una bolla di sovrapproduzione e una “guerra dei prezzi” interna che ora si scarica sull’export.

L’Ue, dal canto suo, non sta a guardare: a ottobre 2024 ha imposto dazi provvisori fino al 35,3% su SAIC, 18,8% su Geely e 17% su BYD, mentre nello scorso mese di marzo 2025 ha aperto un’indagine specifica sui sussidi illeciti per lo stabilimento BYD in Ungheria, temendo una concorrenza sleale che erode posti di lavoro e innovazione europea.

È geopolitica pura, camuffata da motori silenziosi: Pechino pompa risorse per dominare la transizione green, mentre l’Italia, con la sua filiera automotive che impiega centinaia di migliaia di persone nell’indotto, rischia di diventare un mercato passivo, un ring dove i pugili cinesi combattono con guantoni finanziati dal governo cinese (anche se avrebbe annunciato la fine dei sussidi nazionali per l’EV nel piano quinquennale 2026-2030).

Per l’Italia, questa situazione rappresenta non solo una sfida commerciale, ma un campanello d’allarme di un declino industriale che sembra irreversibile. A novembre 2025 il ritardo rispetto ai livelli pre-pandemia è di 359 mila unità in meno ed è destinato ad allargarsi ancora nel mese di dicembre. Gioielli come Comau e Magneti Marelli sono stati venduti. La filiera italiana dell’automotive, che comprende fornitori di componentistica, designer e ingegneri, è un ecosistema fragile: migliaia di posti a rischio e con l’arrivo dei cinesi, che promettono assemblaggio locale, rischiamo di trasformare fabbriche storiche in semplici montatori di kit cinesi, restando privi di know-how e innovazione.

Chi sogna un “ruolo di rimbalzo” grazie al design italiano, prendendo ad esempio il centro stile di BYD a Milano, si illude: è una chimera. Quando i giganti cinesi investono in Europa, scelgono l’Ungheria per il primo stabilimento BYD (produzione entro fine 2025, con 4 miliardi di euro), la Turchia per il secondo nel 2026 grazie all’unione doganale Ue e la Spagna per il terzo, attirati da incentivi fiscali e logistica. L’Italia? Tagliata fuori, non per colpa di uno specifico governo, quello attuale o un altro dei precedenti, ma per un sistema-Paese che non attrae capitali stranieri, con burocrazia asfissiante e instabilità che scoraggerebbero chiunque, assieme ad una cronica mancanza di visione politica e di strategia industriale per il Paese.

Diventare assemblatori di auto cinesi come ventilato da qualcuno sulle pagine di un importante quotidiano finanziario italiano? È un’illusione pericolosa, un contentino che non restituisce sovranità industriale. Quelli che lo propongono come salvagente ignorano che la Cina è anni luce avanti in batterie, software e supply chain EV, e che l’Italia non può competere importando veicoli pronti all’uso, erodendo margini per l’indotto e lasciando designer a ritoccare badge invece di innovare.

Geely, che ha resuscitato Volvo dopo il disastro Ford, controlla Polestar e Lotus, e il suo fondatore Li Shufu è azionista di Mercedes: queste realtà non vengono per imparare dal Made in Italy, ma per conquistare quote con prezzi imbattibili.

In questo scenario, l’Italia dell’auto, ricca di storia, dai fasti della Lancia ai successi della Maserati, rischia un declino irreversibile, non per mancanza di talento, ma per inerzia strategica. Per noi resta una sola strada possibile: ritrovare il coraggio di fare scelte di politica industriale, rimettendo al centro ricerca, sviluppo e un sistema-Paese che torni a essere attraente.