Il paradosso è affascinante: abbiamo algoritmi che distruggono i campioni di scacchi, che umiliano i maestri di Go e che risolvono problemi di logica matematica con una precisione glaciale. Poi basta presentare loro una griglia colorata con una regola nascosta e la macchina va in tilt come un vecchio modem degli anni ’90. È qui che si manifesta lo scarto più imbarazzante tra l’intelligenza artificiale di oggi e l’illusione dell’intelligenza artificiale generale, l’AGI che dovrebbe comportarsi come un cervello umano, con elasticità, adattamento e la capacità di improvvisare.
Il cuore della questione sta nella differenza tra competenza verticale e intelligenza generale. Le AI attuali funzionano come virtuosi ossessivi: se gli chiedi di riconoscere pattern in milioni di partite di Go, ti restituiscono una maestria sovrumana. Se però li sposti fuori da quel dominio, si scopre che sono ciechi, incapaci di improvvisare senza il supporto di un oceano di dati. L’AGI, invece, richiede la capacità di apprendere regole con pochi esempi, di generalizzare e di trasferire conoscenza a contesti nuovi. La stessa abilità che un bambino usa quando capisce che una mela rossa e una palla rossa hanno in comune più della forma o del colore, ma una categoria concettuale.
François Chollet lo ha capito quando nel 2019 ha proposto l’ARC, l’Abstraction and Reasoning Corpus. Una batteria di puzzle che sembrano ridicolmente semplici agli occhi umani: piccoli quadrati colorati in cui bisogna dedurre una regola e applicarla a una nuova configurazione. Per un umano l’intuizione fa il resto, spesso in pochi secondi. Per un algoritmo, è come chiedere di navigare a vista in un oceano senza mappe né fari. Il risultato è un fallimento spettacolare che mette a nudo i limiti strutturali dell’intelligenza artificiale odierna.
Ciò che rende l’ARC micidiale non è la complessità del compito, ma la sua semplicità. Quando gli esempi sono pochissimi, l’unico modo per risolvere il puzzle è usare qualcosa che somiglia al buon senso. E il buon senso, purtroppo, non si compra con un dataset più grande o con più GPU. È una combinazione di intuizione, esperienza accumulata e capacità di fare analogie. Una qualità che gli umani possiedono naturalmente perché vivono in un mondo tridimensionale, sporco, caotico e imprevedibile. Le AI, al contrario, vivono in mondi puliti, statistici, addestrati a riconoscere correlazioni più che concetti.
Qui emerge la questione più scomoda: l’AI non è stupida perché non sa fare calcoli, ma perché manca di quella elasticità che noi diamo per scontata. È il motivo per cui una rete neurale che può batterti a poker non saprebbe apparecchiare la tavola per la cena. Può sembrare un dettaglio irrilevante, ma è la crepa che separa il machine learning dal pensiero. E mentre i ricercatori si arrampicano su montagne di dati, l’ARC ricorda che la vera intelligenza non è l’accumulo, ma la capacità di saltare oltre l’evidenza.
Alcuni vedono nei videogiochi un nuovo laboratorio per questo salto evolutivo. Non quelli iperrealistici che richiedono solo riflessi veloci, ma giochi che impongono di adattarsi, pianificare, trasferire competenze acquisite in scenari diversi. Il videogioco, con la sua natura interattiva e in continua variazione, può essere un terreno fertile per insegnare alle AI la flessibilità. Un agente che impara a sopravvivere in un mondo virtuale mutevole potrebbe avvicinarsi più di quanto faccia un algoritmo addestrato solo a riconoscere facce o a tradurre testi.
Il messaggio nascosto è che la vera AGI non nascerà dall’accumulo di miliardi di parametri, ma dall’architettura concettuale capace di manipolare regole, analogie e simboli come fa la mente umana. È la differenza tra guardare milioni di esempi di porte e capire che una maniglia serve a entrare in uno spazio chiuso. E non è un caso che oggi un bambino di cinque anni possa battere i sistemi più avanzati nel riconoscere la logica dietro una griglia colorata. È un trionfo dell’imperfezione umana contro l’eleganza algoritmica.
La sfida dell’AGI resta lì, sospesa tra il desiderio di replicare il pensiero e l’incapacità di codificare ciò che rende l’uomo così banale e al tempo stesso irriducibile. I puzzle dell’ARC e l’universo dei videogame ci ricordano che l’intelligenza non è solo calcolo, è adattamento, intuizione, improvvisazione. Per ora, la macchina può vincere tornei e calcolare traiettorie interstellari, ma resta cieca di fronte a una regola nascosta in una scacchiera di colori. E questa cecità, più che un dettaglio, è la prova che l’AGI è ancora un miraggio.