La Silicon Valley ha smesso di essere un luogo. È diventata una condizione mentale, una forma di bipolarismo tecnologico in cui ogni settimana si alternano visioni messianiche e crisi identitarie. Benioff parla come un profeta stanco che non crede più nei suoi miracoli, Musk sfida la fisica e la legge di gravità finanziaria, Sutskever medita in silenzio sulla coscienza delle macchine, mentre Google tenta di convincere il mondo che la Privacy Sandbox non sia un modo elegante per rimpiazzare i cookie con un recinto proprietario.
Tutto accade in un ronzio costante di podcast, post su X e conferenze sponsorizzate, come se la verità potesse emergere da una diretta in streaming più che da una decisione strategica.
Nel bar dei daini, luogo metaforico dove gli algoritmi incontrano il cinismo, le notizie si mischiano come cocktail troppo forti. La Silicon Valley si guarda allo specchio e non riconosce più la sua immagine riflessa. L’epoca dell’idealismo digitale è finita, sostituita da una competizione spietata per il controllo dei dati, dell’intelligenza artificiale e del tempo mentale degli utenti.
Tutti parlano di open source, ma ciò che intendono davvero è “open fino a quando non diventa profittevole”. È il paradosso del secolo: l’intelligenza artificiale come promessa di libertà che si trasforma in infrastruttura di sorveglianza.Benioff, il CEO di Salesforce, ha lanciato l’ennesimo monito: l’IA deve essere “affidabile e centrata sull’uomo”. Ma il mercato non ascolta i sermoni, ascolta solo i rendimenti trimestrali. Le sue parole risuonano come un eco in un canyon di investitori annoiati che aspettano solo di capire quale sarà la prossima startup generativa da finanziare.
Incomprensibile vedere la Silicon Valley scoprire di colpo la morale, dopo anni passati a misurare l’etica in punti percentuali di engagement. Si chiama pentimento as-a-service, ed è l’ultimo prodotto non scalabile che le big tech hanno inventato.Musk, nel frattempo, continua a giocare a Risiko con satelliti, automobili e modelli linguistici. L’uomo che vuole portare l’umanità su Marte ha un talento raro: riesce a dominare la narrazione globale come se ogni settimana fosse un reboot della sua stessa biografia. X, la sua creatura più recente, è diventata un laboratorio di caos algoritmico, dove la libertà di espressione viene misurata in like e il dibattito pubblico in clickbait. Ma sotto il rumore, Musk capisce una cosa che molti fingono di ignorare: il controllo dell’infrastruttura è più importante del prodotto.
È per questo che investe su chip, cloud e modelli di intelligenza artificiale proprietari. Non vuole solo competere con OpenAI, vuole riscrivere le regole del gioco.Sutskever, invece, gioca a un livello diverso. Dopo la sua uscita silenziosa da OpenAI, è diventato il simbolo di una domanda che la Silicon Valley non vuole affrontare: se le macchine possono essere coscienti, chi sarà moralmente responsabile delle loro azioni? È una questione che tocca la filosofia, la politica e la governance aziendale. Ma, per ora, il dibattito è anestetizzato da un entusiasmo collettivo che preferisce parlare di efficienza e automazione. In questo scenario, l’intelligenza artificiale non è più una rivoluzione, ma una religione laica, con i suoi dogmi, i suoi sacerdoti e i suoi eretici.
Sul fronte opposto, Google continua la sua battaglia per reinventare la privacy online con la Privacy Sandbox. È una mossa brillante e ipocrita insieme. L’azienda che ha costruito il suo impero sul tracciamento dei comportamenti ora si propone come paladina della protezione dei dati. In realtà, la Sandbox è una ristrutturazione architettonica dell’advertising, pensata per preservare il controllo del flusso informativo dentro il perimetro di Mountain View. È la privacy secondo Google: privata, nel senso di “di proprietà loro”. Ciò che sfugge a molti analisti è che la Sandbox è anche la risposta preventiva alla nuova ondata di regolamentazioni globali, dall’AI Act europeo alle iniziative cinesi per il controllo dei modelli linguistici. Google non vuole essere costretta a cambiare, vuole essere la prima a scrivere le regole.
C’è poi il ritorno silenzioso della Cina nell’arena tecnologica occidentale. Mentre gli Stati Uniti discutono di chip e geopolitica, le aziende cinesi affinano la loro strategia di soft power digitale, integrando AI, 5G e piattaforme di e-commerce come strumenti di influenza culturale. La Silicon Valley, per una volta, sembra sulla difensiva, costretta a riconoscere che l’innovazione non è più un’esclusiva californiana. L’epoca in cui ogni idea nasceva a San Francisco e moriva a Pechino è finita. Ora le direzioni si sono invertite, e i nuovi algoritmi globali parlano mandarino.
Nel bar dei daini, tra un caffè e un algoritmo, qualcuno ride del fatto che la parola “intelligenza” sia diventata una commodity. Tutti la vendono, nessuno la capisce davvero. I modelli si moltiplicano, le startup generative nascono e muoiono in pochi mesi, mentre gli investitori cercano disperatamente di indovinare chi sarà il prossimo OpenAI. Ma la verità è che la vera disruption non sarà tecnologica, sarà sociale. L’AI non cambierà il mondo finché non cambierà il modo in cui lo misuriamo. Finché le aziende continueranno a parlare di “persone” solo quando diventano “utenti”, la trasformazione digitale resterà una parola d’ordine da conferenza.
In questo scenario, non prendersi troppo sul serio come editir è una forma di sopravvivenza. È l’unico modo per non prendere troppo sul serio un’industria che vende il futuro in abbonamento mensile. La Silicon Valley oggi non produce solo tecnologia, produce ideologia: la fede cieca nel progresso come destino. Ma ogni religione ha bisogno dei suoi dubbi, e forse è tempo che il dubbio torni di moda. Forse la vera innovazione sarà imparare a dire “non lo so”, in un mondo che pretende risposte in tempo reale.La chiacchierata al bar dei daini finisce sempre con la stessa domanda: chi controlla davvero l’intelligenza artificiale? Nessuno lo sa, eppure tutti si comportano come se la risposta fosse ovvia. Nel frattempo, l’umanità continua a fare quello che ha sempre fatto: delegare alle macchine ciò che non vuole più capire. E così, tra un algoritmo e un aperitivo, scopriamo che la vera minaccia non è che l’AI diventi più intelligente di noi, ma che noi smettiamo di esserlo.