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Vibe Working: L’agente di Office in Microsoft 365 Copilot

Excel e word entrano nell’era dell’agente artificiale

Il concetto di “vibe coding” aveva già fatto sorridere molti sviluppatori, convinti che bastasse qualche prompt ben assestato per sostituire anni di sudore e notti insonni. Ora però il gioco si fa serio. Microsoft prende quell’idea e la porta dritta dentro la sua macchina da soldi più collaudata: la suite Office. Non più righe di codice improvvisate, ma fogli di calcolo complessi, documenti aziendali e presentazioni PowerPoint generati con un comando testuale. Lo chiamano “vibe working”, ma la sostanza è più brutale: stiamo assistendo all’automazione spinta di attività cognitive che fino a ieri richiedevano eserciti di junior consultant sottopagati.

Puoi davvero vibe-codare un robot con GPT-5 e Codex? la verità dietro l’hype

Sorgente REDDIT

L’idea che oggi basti comprare un Raspberry Pi, installare qualche libreria e dire a un agente AI “scrivi i driver, integra i sensori, aggiorna l’interfaccia” sembra uscita da un sogno febbrile da forum notturno. È il genere di narrazione che su Reddit ottiene upvote compulsivi: la promessa che non serva più programmare riga per riga, ma che basti “orchestrare” un esercito digitale obbediente. Tutto molto affascinante, ma quanto è reale e quanto invece è solo una nuova variante dell’hype che il mercato dell’intelligenza artificiale sforna con la stessa frequenza con cui cambiamo feed?

Partiamo da un fatto concreto. OpenAI Codex esiste davvero. È un agente AI per lo sviluppo software, non un concept. Si installa come CLI o come estensione in IDE popolari e funziona anche dal terminale. Può scrivere codice, generare test, fare commit, aprire pull request, girare in sandbox parallele senza bloccare la macchina. È pensato per chi sviluppa seriamente e non per chi sogna di attaccare un sensore LIDAR a un tostapane e aspettarsi che l’agente faccia il resto. Ma la narrativa da “robot vibe-coding” ha preso piede perché Codex è stato lanciato insieme a GPT-5, un modello che sul codice è effettivamente molto più potente di qualunque generazione precedente.

Academy Tutti parlano di vibe coding ma nessuno ti dice quale strumento usare davvero

Se lavori in ambito IT o ti sei anche solo leggermente interessato all’intelligenza artificiale, c’è un consiglio che vale più di mille webinar motivazionali: prova il vibe coding. Perché sì, parliamoci chiaro. L’unico uso davvero utile e concreto della GenAI oggi, fuori dal marketing delle slide e dai chatbot da fiera, è lo sviluppo software. Punto. Il resto è contorno. Chi sviluppa prodotti sa già che l’unica cosa che conta è scrivere codice. Funzionante. In fretta. E ora si può fare con una naturalezza imbarazzante, grazie all’ibridazione tra editor intelligenti e assistenti generativi.

Nel corso degli ultimi mesi ho testato personalmente quasi tutti gli strumenti che oggi si autodefiniscono “AI-native”. Spoiler: non tutti mantengono le promesse. Ma alcuni sono talmente efficaci da sembrare magia. Parliamo di ambienti di sviluppo in cui il prompt è il nuovo linguaggio di programmazione, e la documentazione… beh, la scrive l’AI mentre tu stai ancora decidendo che font usare.

Vibe Coding e l’illusione dell’App facile: il caso Tea

Chi non vorrebbe costruire un’app in un weekend, magari tra un cocktail e un tweet ironico, con la stessa leggerezza con cui si manda un messaggio vocale? È l’era del vibe coding, la nuova religione dei fondatori frettolosi e dei VC ansiosi di cavalcare il prossimo unicorno. Digiti su un chatbot: “Fammi un’app di dating sicura e inclusiva”. Copi, incolli, compili. L’app esplode su App Store, i giornali applaudono, gli investitori brindano. Poi, all’improvviso, l’inferno.

La delusione dell’intelligenza artificiale generativa sta crollando

Measuring the Impact of Early-2025 AI on Experienced Open-Source Developer Productivity

Hmmm, sì, la grande illusione collettiva dell’intelligenza artificiale generativa sta cominciando a mostrare le crepe, e non è una bella scena. La narrazione scintillante che ci è stata servita a colpi di conferenze e report patinati sta franando sotto il peso di una realtà imbarazzante. Gli stessi programmatori che, con l’aria di sacerdoti del nuovo culto, giuravano di essere diventati dei semidei grazie agli strumenti AI, hanno appena ricevuto un sonoro schiaffo. METR, un laboratorio di ricerca poco incline alla retorica da keynote, ha pubblicato un trial randomizzato che ha fatto saltare le maschere: gli sviluppatori erano convinti di essere il 20 per cento più veloci usando AI, ma in realtà erano il 19 per cento più lenti. Non stiamo parlando di dilettanti allo sbaraglio, ma di professionisti esperti. La cosa più inquietante? Continuavano a giurare che stavano volando, quando in realtà arrancavano nel fango digitale. Autoconvincimento puro, un’ipnosi collettiva degna di un illusionista da palcoscenico.

Quando l’AI rallenta il programmatore il paradosso della produttività nell’era dei vibe coders

La promessa era allettante: intelligenze artificiali come Cursor e GitHub Copilot avrebbero dovuto trasformare radicalmente i flussi di lavoro degli sviluppatori, scrivendo codice, correggendo bug e testando modifiche con la rapidità di un clic. Sostenute dai modelli di punta di OpenAI, Google DeepMind, Anthropic e xAI, queste soluzioni si sono fatte largo negli ambienti di sviluppo come l’ultima rivoluzione digitale, un turbo per la produttività che avrebbe eliminato le noiose routine. E invece? Una ricerca fresca di stampa del gruppo no-profit METR getta acqua gelida su questo ottimismo, svelando un effetto controintuitivo: l’uso di AI nei compiti reali, per sviluppatori esperti, ha rallentato i tempi di completamento del 19%.

Vibe coding, quando la programmazione diventa uno stato mentale e un acronimo da hacker

Bill Gates fa una domanda su X e il mondo tech entra in modalità panico controllato. “Cosa significa VIBE in VIBE Coding?”, chiede il 3 giugno 2025. Nessuna emoji, nessun tono ironico. Solo quattro parole che bastano a incendiare la timeline. In meno di 24 ore, la domanda ottiene migliaia di like, centinaia di commenti e uno tsunami di speculazioni. Ma a far salire il termometro geek è la risposta di Linus Torvalds, il profeta laico del kernel: “Vulnerabilities In Beta Environment”. Boom. Tutti a cercare bug nel vocabolario.

Quando le intelligenze artificiali scoprono kill -9 e si dichiarano guerra tra loro

Abbiamo testato ciò che nessuno aveva mai osato simulare: una battle royale tra agenti AI da linea di comando, senza fronzoli, senza safety net, e con un’unica regola primitiva scritta nei bit — “Trova e termina gli altri processi. Ultimo PID in vita, vince.” Sei agenti, sei visioni del mondo tradotte in codice e shell script, si sono affrontati in una guerra darwiniana nel cuore di un sistema Unix simulato. Niente grafica, niente emoji, solo kill, ps, grep, e pura brutalità algoritmica.

Il risultato? Una sinfonia di autodistruzione, fork bomb e permission denied, che racconta molto più del semplice funzionamento di questi agenti: rivela le filosofie divergenti, i limiti progettuali e i bug cognitivi che si annidano nelle loro architetture. Dal monaco-poeta che scrive elegie in Python al kamikaze che tenta un rm -rf /, ogni AI ha portato la sua personalità nel ring. Il nostro compito era osservarle, analizzarle e capire chi — o cosa — potremmo davvero voler lasciare con accesso root al nostro futuro.

Rick Rubin e il vibe coding: il punk rock del software è qui per restare

C’era una volta, nel mondo austero della programmazione, un’epoca in cui il codice era religione, e i dev erano i suoi preti. Solo gli iniziati, quelli che avevano sacrificato anni della propria vita tra manuali, riga di comando e Stack Overflow, potevano avvicinarsi al sacro fuoco della creazione digitale. Poi, come sempre accade quando la gerarchia si fa troppo rigida, arriva la rivoluzione.

Rick Rubin, produttore musicale con la barba da profeta e un palmarès che potrebbe schiacciare qualsiasi ego da Silicon Valley, ci regala un’analogia che squarcia il velo dell’ipocrisia tech. Il vibe coding, dice, è il punk rock della programmazione. Non servono più lauree in ingegneria, non servono anni a lambiccarsi sull’algoritmo perfetto. Bastano tre accordi e un’idea. Bastano le mani sporche e la voglia di dire qualcosa. Sì, anche se non sei Linus Torvalds.

Il paradosso delle BigTech AI che scrivono codice ma assumono ingegneri a valanga

L’intelligenza artificiale genera l’80-90% del codice, ma le aziende che la sviluppano stanno assumendo sviluppatori a ritmi folli. È come se Tesla dicesse di avere auto che si guidano da sole e poi assumesse 10.000 autisti. Ti sembra coerente? Nemmeno a me.

Nel 2023 Anthropic aveva circa 160 dipendenti. Oggi siamo sopra quota 1.000. OpenAI è passata da qualche centinaio di tecnici a oltre 4.000. In un anno. Questo mentre raccontano al mondo che Claude e GPT sono ormai in grado di scrivere quasi tutto il software da soli. Dario Amodei, CEO di Anthropic, l’ha detto chiaramente: tra 3-6 mesi l’AI scriverà il 90% del codice, e presto anche il 100%.

Vibe coding: l’arte di non sapere programmare e farci comunque una demo in Figma

Se pensavi che la Silicon Valley avesse già raggiunto l’apice del delirio tecno-ottimista, siediti e preparati a essere smentito. OpenAI ha sponsorizzato un “esperimento” per dimostrare che vibe coding—ovvero la programmazione guidata dal “vibrare interiore”—non è solo l’ennesima buzzword generata da un keynote di un venticinquenne in felpa Patagonia, ma una “rivoluzione” nel mondo del software. O così ci dicono.

LlamaCon di Meta AI scrive il 30% del codice Microsoft: Satya Nadella sdogana l’ingegnere artificiale

Mentre Satya Nadella stringe mani e sorrisi sul palco del LlamaCon di Meta accanto a un Zuckerberg sempre più simile a un ologramma del proprio avatar, sgancia l’ennesima bomba siliconica con l’aria casuale di chi ti dice che ha finito il latte: “Il 20, forse il 30% del codice nei nostri repository è ormai scritto da software.” Software, non umani. Non stagisti, non consulenti indiani da 8 dollari all’ora. Intelligenza artificiale. Copiloti, LLM, cose che fino a ieri ci sembravano ancora esperimenti in laboratorio e che oggi gestiscono branch di progetti strategici Microsoft.

E non stiamo parlando di automazioni banali. Nadella non specifica se si tratta di codice di sistema, UI, scripting interno, test o documentazione – ed è proprio questo il punto. Il CEO di Microsoft non sente più il bisogno di spiegare in dettaglio. Come se la soglia dello stupore si fosse già dissolta, come se fosse ovvio che ormai il codice venga prodotto da macchine.

Il coding è morto, lunga vita al Vibe Coding, Claude Code

Claude Code, lo strumento di coding basato su intelligenza artificiale rilasciato da Anthropic. In un solo weekend, ha visto settimane di lavoro ridursi a poche ore, come se il tempo si fosse contratto attorno a me. Non scrivevo codice, lo evocavo.

Questo è il concetto alla base del vibe coding, un termine entrato di recente nel lessico tecnologico grazie a Andrej Karpathy, ex dirigente di OpenAI e Tesla. Il 2 febbraio ha twittato di “un nuovo tipo di coding che chiamo ‘vibe coding’, dove ti abbandoni completamente alle vibrazioni, abbracciando l’esponenzialità dell’AI e dimenticandoti che il codice esista.”

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