Avete presente quando si entra in un ufficio pubblico e l’odore di carta stantia e burocrazia fossilizzata vi assale come un punch nello stomaco? Ecco, dimenticatelo. O meglio, fatelo convivere con il futuro, perché oggi si parla con toni salvifici e un lessico da conferenza ONU di “nuova governance”. Ma non una qualsiasi, no: una governance con “accezione più ampia”, un Frankenstein istituzionale dove l’umano e il digitale danzano in un ecosistema “generale” e anche, udite udite, “perverso”.
Che detta così sembra una distopia di Philip K. Dick scritta in un ufficio del Ministero dell’Interno. Eppure, sotto questa coltre verbale di Alessandro Butti Sottosegretario Innovazione Tecnologica densa come un’interrogazione parlamentare, si muove qualcosa di pericolosamente interessante. Perché la parola chiave, la keyword madre di questo speech ordinato, è ecosistema. Le figlie semantiche? Pubblica amministrazione, governance, lavoro umano.
È lì che si gioca il match: non più solo “digitalizzare per fare prima”, ma umanizzare attraverso il digitale. Sembra uno slogan da startup post-psichedelica, invece è il cuore pulsante di una visione che vuole trasformare il dipendente pubblico da impiegato esecutore a nodo sensibile e creativo, “ganglio di cane” come evocato con una metafora zoologico-filosofica tanto bizzarra quanto efficace.Ma attenzione: qui non si tratta di modernizzare. Quella è roba vecchia, da riformisti con Excel. Qui si vuole trasformare. Stravolgere. Mettere in piedi una PA che non sia più artrosica, incestata, burocratizzata.
E come ci si arriva? Non certo con i corsi di aggiornamento da due ore su Teams. Serve una leadership che non sia solo “forte”, ma chiusa. E anche qui il termine è un pugno in faccia: “chiusa” non nel senso di autoreferenziale, ma protetta, strutturata, immune alla volatilità della mediocrità diffusa. La PA del futuro, se vuole esistere come organismo vivo, deve avere fame di apprendimento continuo, di empatia cognitiva, di creatività amministrativa.
Sembra un ossimoro? Lo è. Ma funziona. Perché il futuro non si scrive con le compatibilità ministeriali, ma con la capacità di immaginare ecosistemi perversi, dove digitale e umano non si limitano a coesistere, ma si contaminano, si ibridano, si potenziano a vicenda. Pensateci: siamo passati dall’ufficio del catasto alla neural interface con l’AI che suggerisce iter normativi più umani. Roba che in confronto la trasformazione di Kafka è una fiaba per bambini.
Il vero salto, però, resta quello della qualità umana del lavoro. Perché puoi avere anche l’intelligenza artificiale più performante del pianeta, ma se il funzionario che la usa è convinto che il cittadino sia un fastidio da contenere, non stiamo innovando un bel niente. Stiamo solo accelerando il fallimento.
È qui che arriva il concetto più sottile e rivoluzionario: empowerment. Ma non inteso come lo intendono nei manuali di risorse umane anni ’90, dove tutto era “motivazionale” e il problem solving era un gioco di ruolo. No, qui si tratta di prendere coscienza del proprio valore sistemico, del proprio impatto trasformativo. Il dipendente pubblico non è più la ruota dentata, ma il neurone sociale. Ha memoria, ha sensibilità, può agire. Deve agire.Il paradosso è che per costruire una PA veramente umana, serve più tecnologia. Ma una tecnologia che non sostituisce, bensì potenzia la qualità cognitiva ed empatica dell’essere umano. Il digitale, in questa visione, non è uno strumento neutro: è un co-protagonista dell’evoluzione organizzativa, un acceleratore antropologico.
E sì, anche un rischio. Perché dove c’è trasformazione, c’è caos. Dove c’è caos, c’è potere. E dove c’è potere, c’è sempre qualcuno pronto a dirigere l’orchestra per suonare la solita melodia del “facciamo finta che cambi tutto per non cambiare nulla”.
Ma stavolta, forse, qualcosa si muove davvero. Perché si comincia a parlare di curiosità cognitiva come competenza chiave nella PA. E scusate se è poco: quando mai abbiamo associato “curiosità” e “pubblica amministrazione” nella stessa frase senza ridere? Come diceva un vecchio dirigente ormai in pensione, “noi passavamo più tempo a timbrare il cartellino che a pensare”.
Ora il cartellino è digitale. Ma se il pensiero non arriva, non c’è algoritmo che tenga.La sfida è tutta qui: usare il digitale per umanizzare, non per automatizzare la disumanità.
Per creare luoghi dove l’innovazione non è un file PowerPoint con grafici colorati, ma un atto quotidiano di creatività amministrativa.E se vi sembra un’utopia, ricordatevi che anche lo smartphone, vent’anni fa, sembrava una perversione fantascientifica. Oggi lo usiamo per litigare con l’INPS.Questo è l’ecosistema perverso. Questo è il nuovo umanesimo digitale. E stavolta, forse, non è solo una frase da convegno.