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Cosa succede quando un cofondatore di Pixar, un po’ di venture capital benedetto da GPU H100 e una moda tecnologica da cavalcare si incontrano in una stanza piena di hype? Nasce Odyssey, la startup che ha deciso di prendere l’idea di un videogioco, togliergli la coerenza, aggiungere una generosa dose di sogno allucinato e venderlo come “il futuro del video”. O almeno, questo è il pitch confezionato per il loro esperimento chiamato “interactive video”, un mondo generato in tempo reale dall’intelligenza artificiale, in cui puoi “camminare” come in un videogioco, ma che sembra più un sogno fatto con troppi cannabinoidi digitali.

La keyword da marchiare a fuoco qui è video interattivo AI, con satelliti semantici come mondi generativi e simulazione immersiva. Google, se stai leggendo, prendi nota.

Odyssey non è un gioco, non è un film, e non è nemmeno un metaverso, ma qualcosa che cerca disperatamente di essere tutte e tre le cose. Premessa interessante, certo. In pratica, però, sembra di camminare in un incubo grafico di Half-Life, remixato da un GAN con la sindrome di Tourette visiva. Ambientazioni come foreste, centri commerciali e parcheggi generati in tempo reale ti circondano, mutano mentre ti muovi e, ogni tanto, si dissolvono davanti ai tuoi occhi. Letteralmente. Una casa che si trasforma in muro mentre la attraversi. Una porta che decide di diventare un buco nero. La collisione degli oggetti è opzionale: talvolta ti ferma un recinto, altre volte puoi attraversare un SUV come se fossi un fantasma. Atmosfera Blade Runner, ma con più bug.

La startup è finanziata, appunto, da Edwin Catmull — sì, proprio quel Catmull, l’ex Pixar che dovrebbe sapere qualcosa su grafica realistica — che però ci tiene a precisare che Odyssey “è sulla frontiera”. Peccato che la frontiera, per ora, sembri più un video di YouTube con la risoluzione bloccata a 144p.

A livello tecnico, il motore che anima questa follia è un mostro alimentato da cluster di GPU H100, distribuiti fra USA ed Europa, che generano i frame in tempo reale sulla base del tuo input e della storia visiva delle immagini viste. In teoria, il tutto avviene con una latenza minima: 40 millisecondi. In pratica, però, il risultato è un caleidoscopio instabile di pixel, un po’ come se Street View fosse stato affidato a uno stagista sotto acido.

L’esperienza è limitata a due minuti e mezzo. Un’ottima scelta, considerando che dopo quel lasso di tempo cominci a chiederti se non sia più produttivo guardare il frigo aspettando che si animi da solo.

Catmull, interrogato sulla qualità dell’immagine, ha glissato con eleganza tipica di chi è abituato a vendere sogni: “Le reti neurali sono perfette per risolvere questo tipo di problemi.” Sottinteso: non oggi, magari domani, o forse quando il tuo nipote sarà un adulto in pensione. Il linguaggio del marketing AI contemporaneo è, ormai, un codice cifrato: ogni “sperimentale” significa “rotto”, ogni “immersivo” vuol dire “buggato”, ogni “nuovo paradigma” nasconde un MVP disperato sotto un mantello di promesse.

Eppure, c’è qualcosa che inchioda lo sguardo. Non è bellezza, non è fluidità, ma è la promessa. La stessa promessa che ti fa restare incollato a un whitepaper troppo ottimista o a una demo che crasha dopo 30 secondi: e se fosse vero?

L’idea di un Holodeck — quello vero, quello di Star Trek, dove tutto è generato al volo e reagisce in modo sensato ai tuoi movimenti — rimane una delle chimere più potenti della storia della fantascienza applicata alla tecnologia. Odyssey non ci arriva nemmeno vicino. Ma come lo erano i primi video deepfake nel 2018, o gli LLM che confondevano Shakespeare con Elon Musk, anche questo è un inizio. Un inizio molto rumoroso, imperfetto, e a tratti comico, ma che possiede l’arroganza necessaria per osare.

A chi serve un video interattivo AI che sembra esploso? A chi crede che il contenuto immersivo non debba essere perfetto, ma solo nuovo. E in questo, Odyssey ha ragione. La noia uccide l’innovazione più velocemente di un crash del sistema, e il sogno, anche se pixelato, è più potente della realtà HD.

Nel frattempo, il mondo del gaming vero — quello che deve vendere copie, fare engagement e monetizzare ore di gameplay — può dormire sonni tranquilli. Odyssey non ruberà il lavoro a Fortnite, né sostituirà The Last of Us come forma d’arte. Ma forse, in un angolo di questo esperimento borderline, c’è una strada che porta da qualche parte.

Il futuro non sarà definito dalla perfezione, ma dall’insistenza. E Odyssey, con i suoi muri che diventano pareti liquide e i suoi centri commerciali da incubo lynchiano, è la prova che qualcuno là fuori è disposto a sbagliare — in pubblico, su larga scala — per raggiungere qualcosa che oggi sembra ridicolo, ma domani potrebbe farci dimenticare che un tempo guardavamo solo.

“La realtà è ciò che continua a esistere anche quando smetti di crederci.” Philip K. Dick

Odyssey, per ora, è solo una fede cieca nel glitch. Ma chi ha detto che l’epifania non possa passare per un errore di rendering?