Pare che l’Italia sia pronta a lanciarsi in una “terza via” sul fronte dell’intelligenza artificiale. Non tra Bologna e Modena, ma tra Washington e Pechino. Il ministro Adolfo Urso, con encomiabile ottimismo istituzionale, ha annunciato la nascita a Roma di un AI-Hub globale che collegherà le multinazionali occidentali del G7 alle start-up africane, nell’ambito del Piano Mattei. In pratica, una superstrada digitale che parte dal Colosseo e arriva, dopo un algoritmo e mezzo, a Nairobi.
La notizia ha il sapore delle grandi occasioni. D’altronde, chi non vorrebbe un’Italia regista dell’etica algoritmica e della sostenibilità neurale, mentre nel mondo si sfidano OpenAI e Baidu a colpi di modelli linguistici da cento miliardi di parametri?
Il punto, però, è che — finora — nel campionato mondiale dell’AI, l’Italia non ha toccato palla. Non eravamo neanche in panchina: si è forse visto ogni tanto qualcuno in tribuna e senza pass stampa.
Eppure, eccoci qui, a dichiararci alternativi agli Stati Uniti e alla Cina. Come se uno studente che ha aperto Word per la prima volta si presentasse al Nobel per la letteratura dicendo: “Io propongo la terza via tra Joyce e Tolstoj.”
Non fraintendeteci. L’idea di una “AI umanista” è affascinante. Una regolamentazione che mette al centro dignità, etica, inclusione. Sembra quasi di sentirla parlare, quest’AI italiana: con la voce di Alberto Angela, il lessico di Italo Calvino e la capacità di procrastinare di uno studente al primo anno di Ingegneria. Una AI che non prende decisioni in fretta, ma riflette, si fa un caffè, ci pensa su. Una AI che chiede permesso, rispetta il GDPR e saluta sempre con un “cordiali saluti”.
Il problema è che, mentre la politica italiana, un po’ con l’approccio da filosofi dell’etica digitale sta ancora lì a scrivere preamboli, altrove si investono miliardi, si formano data scientist, si brevettano modelli e si creano supercomputer (si, ho capito, abbiamo Leonardo, ma non è questo il punto). E noi? Noi inauguriamo l’AI-Hub. Certo, con l’ausilio delle Nazioni Unite, che fa sempre scena nei comunicati stampa, ma che nella pratica dell’AI conta quanto una raccomandazione scritta a mano su un foglio di carata in Silicon Valley.
A voler essere maliziosi, tutto questo sa un po’ di strategia geopolitica più che di innovazione reale. Mettiamo una bandierina in un settore in cui altri già scavano miniere. Ci dichiariamo “ponte tra Nord e Sud del Mediterraneo”, mentre in casa abbiamo ancora una banda larga che, in certi comuni, è larga quanto una mulattiera, mentre in altri non è proprio pervenuta.
Poi, ci mancherebbe, da italiani non possiamo che tifare per questa Italia dell’AI, che sogna in grande anche se il suo modello linguistico più avanzato risponde ancora in burocratese. Magari la terza via esiste davvero. Magari sarà proprio Roma, tra un marciapiede dissestato e una ZTL mal segnalata, a ospitare il cuore etico dell’intelligenza artificiale mondiale.
Nel dubbio, restiamo connessi.
Sempre che ci sia segnale.