Apple ha un problema con l’intelligenza artificiale. E si chiama Siri.

Nonostante le fanfare, le demo impeccabili e le promesse reiterate nei keynote più luccicanti della Silicon Valley, l’assistente vocale di Apple – lanciato nel 2011 come l’alba del futuro vocale – oggi sembra più un’inserviente spaesata nella grande villa dell’AI generativa. Eppure, qualcosa si muove a Cupertino. Dopo rinvii, scaricabarile interni e riscritture strutturali del codice, Apple ha fissato un obiettivo ambizioso ma (stavolta) realistico: lanciare la nuova Siri nella primavera del 2026, con iOS 26.4.

Chiamiamolo pure un reboot radicale. Una chirurgia a cuore aperto sulla spina dorsale dell’interfaccia vocale di Apple. Perché, a differenza delle iterazioni precedenti – dove si trattava per lo più di cerotti estetici e bug fix – stavolta l’intervento è profondo. Parliamo di architettura neurale, non solo di interfaccia. La nuova Siri, secondo fonti interne, non sarà più l’assistente impersonale e disconnesso che conosciamo, ma una creatura semi-senziente capace di comprendere il contesto personale, le attività sullo schermo e perfino le intenzioni implicite dell’utente.

Tradotto: la prossima Siri sarà il tuo stalker digitale preferito. Ma consenziente.

La roadmap attuale prevede il rilascio in primavera 2026, verosimilmente a marzo con iOS 26.4. Ma la data è scritta a matita, non a inchiostro: tutto dipende da quanto velocemente (e stabilmente) il nuovo sistema LLM interno – noto come Siri LLM – saprà integrarsi senza crashare. Perché sì, finora non ha brillato. Secondo Bloomberg, la tecnologia in fase di test ha fallito circa un terzo delle richieste. Un dato letale per uno standard Apple, che pretende una percentuale di successo degna di un chirurgo svizzero.

A rendere più amara la pillola c’è il fatto che il rilancio di Siri doveva arrivare già nell’autunno 2024, insieme all’iPhone 16. Poi spostato alla primavera 2025. Poi a maggio. Poi al “prossimo anno”. E infine: “quando sarà pronto”. La più classica delle formule usate quando nemmeno in azienda sanno più chi ha le redini del progetto. O meglio, chi le ha, ma le ha mollate a metà corsa.

Ed eccoci al nodo della vicenda: all’interno di Apple, il progetto Siri è stato teatro di una guerra fredda tra ingegneri e marketing. Da una parte gli sviluppatori, che accusano i colleghi del reparto comunicazione di aver venduto al pubblico qualcosa che era ancora un prototipo instabile. Dall’altra, i markettari, che giurano di essersi mossi sulla base delle timeline fornite (e poi smentite) dai team AI. Il risultato? Un classico caso da Harvard Business Review di come NON gestire l’innovazione in una big tech.

Nel frattempo, Apple ha rivoluzionato la leadership del settore: via John Giannandrea, l’ex capo AI di Google passato a Cupertino nel 2018 con grandi aspettative, ora retrocesso a ruoli più ombra dopo i flop pubblici. Al suo posto, due volti ben più noti al pubblico Apple: Craig Federighi, signore delle demo patinate, e Mike Rockwell, il cervello dietro Vision Pro. Sono loro i nuovi registi del rilancio. Ed è significativo: a occuparsi di Siri ora sono i responsabili di prodotto che sanno cosa significa “metterci la faccia” su un palco. E non solo algoritmi.

Dietro le quinte, il nuovo Siri sarà alimentato da App Intents, un framework che consentirà al sistema di controllare in maniera più granulare e intelligente le app e le azioni. Vuoi che Siri ti prenoti una cena, ti generi una mail di risposta automatica ma personalizzata, ti suggerisca un documento mentre scrivi? Sarà possibile. In teoria. In pratica, bisognerà vedere quanto Apple vorrà delegare a partner esterni come OpenAI o Google. Per ora, l’azienda ha scelto un approccio ibrido: un po’ AI interna, un po’ outsourcing strategico.

È questa la parte meno raccontata ma più cruciale dell’intera operazione: Apple non vuole solo rilanciare Siri. Vuole ridefinire la propria strategia AI. La posta in gioco è molto più alta di una voce robotica che capisce quando le chiedi di accendere le luci. C’è in ballo la sopravvivenza stessa del modello Apple in un mondo in cui i modelli linguistici stanno diventando la nuova interfaccia utente.

Nel 2025, Apple ha presentato “Apple Intelligence” al WWDC, ma le vere funzionalità core – tra cui Siri 2.0 – non si sono viste. Federighi ha messo le mani avanti: “Questo lavoro ha richiesto più tempo per rispettare i nostri elevati standard qualitativi.” Traduzione: stava andando tutto a rotoli, ma ora ci stiamo riprendendo.

Nel frattempo, l’effetto domino si è fatto sentire anche altrove: la smart home hub che doveva usare Siri come cervello centrale è stata congelata. E il progetto degli smart glasses previsti per il 2026 è in forte ritardo, anche perché Apple non è ancora pronta a gestire localmente l’analisi ambientale in tempo reale, appaltandola di fatto a OpenAI e Google. Cioè i diretti concorrenti.

La domanda di fondo resta: può Apple permettersi di restare follower nel mercato dell’intelligenza artificiale? Fino a pochi anni fa, bastava un design elegante e un chip proprietario. Oggi, chi non governa la propria AI è destinato a diventare una skin su modelli di altri. Esattamente ciò che Apple ha sempre cercato di evitare.

Una curiosità che rende bene il clima attuale: pare che internamente, qualcuno nel team Apple AI abbia soprannominato Siri “la stagista con 13 anni di esperienza”. Non capisce tutto, ma ti sorride sempre. Il problema è che ormai, nel mondo dell’AI generativa, nessuno ha più voglia di parlare con una stagista. Nemmeno se veste Prada.