Quando si parla di “cloud europeo” la retorica prende il volo, i comunicati si moltiplicano e le istituzioni si affannano a mostrare che, sì, anche il Vecchio Continente può giocare la partita con i big tech americani. Ma basta grattare appena sotto la superficie per accorgersi che, mentre si organizzano convegni dal titolo vagamente profetico come “Il futuro del cloud in Italia e in Europa”, il futuro rischia di essere una replica sbiadita di un presente già dominato altrove. L’evento dell’8 luglio, promosso da Adnkronos e Open Gate Italia, ha messo in scena l’ennesimo tentativo di razionalizzare l’irrazionale: cioè la convinzione che l’Europa possa conquistare la sovranità digitale continuando a delegare le sue infrastrutture fondamentali agli hyperscaler americani. A fare gli onori di casa, nomi noti come Giacomo Lasorella (Agcom) e Roberto Rustichelli (Agcm), professori universitari esperti di edge computing, rappresentanti delle istituzioni europee e naturalmente AWS e Aruba, i due lati della stessa medaglia: chi fa il cloud globale e chi prova a salvarne un pezzetto per sé.

Il paradosso è evidente: mentre si discute di regolazione, competitività e “cloud sovrano”, la realtà mostra che meno della metà delle imprese europee ha adottato tecnologie cloud nel 2023, secondo Eurostat. Un dato imbarazzante se si considera che Bruxelles, nel suo Decennio Digitale, pretende che entro il 2030 almeno il 75% delle aziende europee utilizzi soluzioni cloud avanzate. Ma avanzate rispetto a cosa? Se il benchmark restano i colossi americani, allora siamo già in ritardo di una generazione tecnologica. Se invece l’obiettivo è creare un’alternativa europea, ci vuole qualcosa di più di un panel con i soliti volti noti e le consuete promesse.

Nel frattempo, l’Unione europea prepara l’EU Cloud and AI Development Act, un’operazione di ingegneria normativa con ambizioni da Silicon Valley: creare Gigafactories dell’intelligenza artificiale, stabilire standard minimi per i servizi cloud, sostenere la creazione di un ecosistema AI europeo. Fantastico sulla carta, ma il dubbio è che stiamo ancora confondendo gli standard con le ambizioni e i regolamenti con l’innovazione. I player americani – e ora anche i cinesi – investono miliardi in modelli fondativi, data center di nuova generazione, supply chain proprietarie e chip specializzati. L’Europa, invece, continua a ragionare per direttive, consultazioni pubbliche e strategie a medio termine. Un po’ come se nel mezzo di una corsa automobilistica globale, Bruxelles stesse ancora cercando di definire il codice della strada.

Il Digital Networks Act è un altro esempio lampante di come la macchina istituzionale europea proceda a rilento. Intendiamoci: l’idea di armonizzare le regole per il settore delle telecomunicazioni, favorire investimenti e ridurre la burocrazia è lodevole. Ma mentre si rivedono i framework normativi, i capitali si spostano, le startup migrano e i cervelli scappano. Il mercato unico della connettività rimane un’aspirazione più che una realtà. E il rischio di restare ostaggio delle infrastrutture altrui cresce ogni giorno. Lo chiamano vendor lock-in, ma su scala continentale diventa dipendenza strategica.

In Italia, intanto, Agcom ha avviato una consultazione pubblica sul ruolo delle Content Delivery Network, le CDN, cercando di capire se debbano essere trattate come operatori critici o solo come meri trasportatori di contenuti. Tema complesso, ma emblematico di quanto poco sia ancora chiaro il posizionamento delle infrastrutture digitali nella nostra catena del valore. Il punto è che oggi la battaglia non si gioca solo sui dati o sulla connettività, ma sul controllo della semantica digitale. Chi gestisce le CDN, i cloud, gli LLM e gli edge node, controlla la logica sottostante della nuova economia. Regolarli è necessario, ma serve anche una visione sistemica che oggi manca.

Ed è proprio la visione a fare difetto. Si parla tanto di “ecosistema europeo” dell’AI, ma continuiamo a ignorare l’asimmetria strutturale rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Lì, gli investimenti in R&D non sono vincolati da una burocrazia paralizzante, e le collaborazioni pubblico-private hanno un’efficienza che da noi appare utopica. L’Europa vuole addestrare modelli linguistici di grandi dimensioni, ma non possiede né i dataset, né l’hardware, né la capacità di calcolo necessaria. E quando li avrà, sarà già troppo tardi. Le Big Tech non aspettano.

In questo scenario, i convegni come quello dell’8 luglio rischiano di diventare l’ennesimo esercizio retorico. Si parla di strategia industriale, ma si agisce in ordine sparso. Si invoca la sovranità tecnologica, ma si firma l’ennesimo contratto con un hyperscaler d’oltreoceano. Si discute di cloud, ma si dimentica che la vera nuvola oggi è l’intelligenza artificiale. Il cloud è solo il substrato. La partita si gioca ormai sopra: nei modelli, negli algoritmi, nei dati. E chi controlla questi tre asset controlla tutto il resto.

La verità è che serve una frattura epistemica, un cambio di paradigma. Smettere di trattare la tecnologia come un tema regolatorio e iniziare a concepirla come un pilastro strategico di politica industriale. Non basta più adattare le regole: bisogna costruire le infrastrutture. Non serve solo vigilanza: serve visione. E, soprattutto, servono capitali. Veri, ingenti, immediati. Se il cloud europeo vuole essere qualcosa di più di una suggestione geopolitica, allora va costruito con la logica dell’interesse nazionale, non del lowest bidder. E con una narrazione che sia finalmente all’altezza della sfida.

Nel frattempo, i dati restano su server che risiedono fisicamente in altri continenti, le startup italiane si appoggiano ad AWS perché non ci sono alternative credibili, e i progetti “sovrani” vengono derubricati a esercizi di compliance. Siamo in un limbo tecnologico, dove l’ambizione digitale è ancora troppo spesso declinata al futuro anteriore. Saremo stati capaci di… Avremmo potuto essere…

Quindi sì, “Il futuro del cloud in Italia e in Europa” è un titolo perfetto. Perché evoca una tensione verso qualcosa che ancora non c’è, ma che tutti fingono di vedere. Una nuvola perfetta, che galleggia sospesa su una realtà ancora profondamente analogica.