Nel mondo dell’intelligenza artificiale ogni settimana è un terremoto, ma questa volta il sisma ha un epicentro geopolitico. Due nuovi strumenti di programmazione generativa lanciati da aziende americane, SWE-1.5 di Cognition AI e Composer di Cursor, hanno scatenato un dibattito feroce: potrebbero essere stati costruiti su modelli cinesi, in particolare sulla serie GLM sviluppata da Zhipu AI, la società di Pechino che sta rapidamente emergendo come il “Google cinese” del machine learning. Il problema non è tanto tecnico quanto etico e simbolico. È la nuova frontiera di una guerra fredda digitale in cui l’intelligenza artificiale open source diventa terreno di scontro fra culture, modelli di governance e potere economico.

Cognition AI, una delle stelle di San Francisco, ha annunciato che SWE-1.5 ha raggiunto prestazioni “near state of the art” nel coding, battendo record di velocità nella generazione del codice. Un risultato impressionante per un’azienda valutata oltre 10 miliardi di dollari. Tuttavia, nella stessa riga in cui esaltava il traguardo, ha anche ammesso che il modello era stato costruito “su un modello open source di riferimento”, senza specificare quale. Bastava questa omissione per accendere le teorie. Gli utenti più curiosi hanno interrogato direttamente l’agente, che a volte rispondeva in modo ambiguo, lasciando intendere che sotto la superficie americana potesse battere un cuore cinese.

Zhipu AI non ha perso tempo. Con una mossa elegante ma pungente, ha dichiarato che SWE-1.5 sembrava basarsi sul suo ultimo GLM-4.6, distribuito con licenza open MIT. Non un’accusa diretta, ma un modo per ricordare che la potenza dell’AI non ha passaporto e che l’open source, sebbene “aperto”, può essere un’arma a doppio taglio. In un commento social, la società ha persino ringraziato Cognition per aver “dimostrato il valore dell’ecosistema open”. Tradotto: ci avete copiato, ma grazie per aver mostrato quanto siamo avanti.

Il caso di Cursor non è meno interessante. Anche la sua nuova creatura, Composer, ha stupito il mercato per la velocità con cui scrive e corregge codice. Poi, un dettaglio ha sollevato sospetti: i log di ragionamento del modello contenevano tracce di cinese. Un lapsus digitale che molti hanno interpretato come la prova che il modello di base fosse anch’esso di origine cinese. Un piccolo indizio linguistico, ma sufficiente a innescare discussioni roventi sulla trasparenza, sull’etica e sulla dipendenza americana da tecnologie asiatiche che fingono di non esserlo.

La questione, ovviamente, è più complessa. Le licenze open source come quella del MIT consentono l’uso, la modifica e persino la commercializzazione dei modelli senza obbligo di attribuzione. Dal punto di vista legale, Cognition e Cursor non hanno violato alcuna regola. Hanno semplicemente sfruttato il meccanismo previsto: prendere un modello aperto, applicare raffinamenti attraverso reinforcement learning e addestramento specializzato, quindi venderlo come prodotto premium. Il confine tra collaborazione e appropriazione si fa sottile, ma perfettamente legittimo. È un cortocircuito del capitalismo digitale: l’apertura come leva per la chiusura.

Florian Brand, ricercatore dell’Università di Trier, ha osservato che “non è importante se si tratti di GLM, Kimi o DeepSeek. La vera differenza sta nella salsa, cioè nel fine-tuning”. Un’affermazione lucida che riflette la realtà tecnica del settore. Ma la “salsa” americana si basa pur sempre su un piatto cucinato altrove. È come se la Silicon Valley stesse servendo ramen cinesi spacciandoli per spaghetti californiani.

Il punto più ironico è che Zhipu AI, lungi dall’essere infastidita, ha trasformato l’episodio in un’operazione di branding globale. Il suo modello GLM-4.6, lanciato a settembre, ha visto un’esplosione di utenti paganti all’estero e l’azienda ha introdotto un piano dedicato al coding professionale. In altre parole, mentre le società americane litigano su chi ha copiato chi, i cinesi incassano la pubblicità gratuita.

Sotto la superficie di questa vicenda, si nasconde un tema più ampio: la geopolitica dell’intelligenza artificiale open source. Il codice libero era nato come ideale collettivo, un linguaggio universale di cooperazione tra sviluppatori. Oggi è un campo minato di licenze permissive, interessi commerciali e rivalità nazionali. La trasparenza è diventata opaca. Le comunità open, un tempo sinonimo di collaborazione, sono ora strumenti di soft power tecnologico.

In questo scenario, la Silicon Valley mostra la sua ambiguità cronica. Da un lato celebra l’open innovation, dall’altro trasforma ogni frammento di conoscenza condivisa in un prodotto chiuso, monetizzato e brevettato. È la vecchia alchimia del capitalismo digitale: prendere qualcosa di libero, aggiungere un po’ di marketing e rivenderlo come magia proprietaria. La differenza è che oggi quella magia potrebbe provenire da Pechino.

La provocazione è semplice ma necessaria. Se la base tecnologica delle prossime generazioni di agenti AI americani è cinese, cosa rimane del mito dell’autonomia tecnologica occidentale? Forse stiamo assistendo a un ribaltamento storico: dopo decenni di tecnologia “made in USA” assemblata in Cina, ora abbiamo intelligenza “made in China” raffinata in California.

I mercati non sembrano turbati. Gli investitori continuano a pompare capitali nelle due aziende, accecati dal potenziale economico di strumenti che promettono di moltiplicare la produttività dei programmatori. Ma nel lungo periodo, il vero valore potrebbe spostarsi verso chi controlla i modelli di base, non chi li rifinisce. È un po’ come nel petrolio: la ricchezza non è nel distributore, ma nel giacimento.

La lezione è chiara per chi sa leggerla. L’open source, nel 2025, non è più un atto di altruismo digitale ma un campo di battaglia strategico. Gli Stati Uniti hanno imparato a monetizzare la libertà, la Cina a sfruttarla come leva di influenza. Entrambi recitano la parte dei pionieri dell’innovazione, ma dietro il sipario, la corsa è a chi scrive la riga di codice che il mondo intero userà senza accorgersene.