L’acqua, quella banale, trasparente, liquida comodità che scorre dal rubinetto, potrebbe diventare la leva di Archimede capace di spostare o far crollare l’intera economia digitale globale. Non stiamo parlando dell’idrogeno verde o della corsa al litio, ma di rame. E della sete insaziabile che questo metallo ha per farsi estrarre e raffinare. Nel 2035, se le proiezioni del nuovo rapporto PwC si rivelassero corrette, fino a un terzo della produzione mondiale di semiconduttori potrebbe essere compromessa dalla scarsità d’acqua. Non per una guerra, non per un attacco informatico. Ma per una banale, prevedibile, ignorata siccità.
Il rame è il sangue invisibile che scorre dentro ogni chip. Serve a costruire i minuscoli filamenti che connettono le logiche interne dei processori, come vene digitali in circuiti cerebrali artificiali. L’estrazione di questo metallo però è tutto tranne che virtuale: servono oltre 1.600 litri d’acqua per produrne appena 19 chili. Tradotto: un SUV intero di molecole d’acqua per realizzare il rame necessario a una manciata di componenti che faranno girare i server dell’intelligenza artificiale, i radar delle auto autonome, le lavatrici intelligenti e i prossimi smartphone pieghevoli. Più che industria hi-tech, sembra agricoltura idrovora.
Per ora il problema sembra lontano, confinato nel deserto cileno dove l’El Teniente la più grande miniera sotterranea di rame al mondo comincia a sentire l’alito secco del cambiamento climatico sul collo. Ma PwC alza il sipario su un futuro prossimo in cui la crisi idrica non sarà più un problema da Paesi in via di sviluppo: nel 2035, Cina, Taiwan, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti – i grandi nodi della supply chain globale dei semiconduttori – saranno tutti potenzialmente coinvolti. Peggio: entro il 2050, nella peggiore delle ipotesi, quasi il 60% dell’intera filiera del chip sarà a rischio siccità.
La retorica green ama dipingere il rame come il metallo della transizione ecologica. Serve per i pannelli solari, per i cavi delle turbine eoliche, per l’elettrificazione delle città. Ma è una verità a metà. La domanda globale di rame crescerà del 40% entro il 2040, spinta proprio dall’esplosione delle tecnologie pulite. E mentre i climatologi discutono sul destino dei ghiacci artici, la vera emergenza strategica potrebbe essere il raffreddamento delle fonderie. Se l’acqua non basta, la fonderia si ferma. Se la fonderia si ferma, il chip non nasce. Se il chip non nasce, addio AI, cloud e automazione. Non è la distopia di un romanzo cyberpunk: è una catena logica industriale.
Il 2021 ci ha già dato un trailer di questo futuro. In quell’anno, una siccità anomala ha colpito Taiwan, mettendo in crisi le operazioni della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, TSMC per gli amici e dominatrice incontrastata del mercato mondiale dei chip. I fiumi si prosciugavano, e il governo locale doveva decidere se dare la priorità ai raccolti o ai wafer di silicio. Indovinate chi ha vinto? Spoiler: le zucchine taiwanesi valgono meno di un processore da 5 nanometri.
“Semiconduttori sono il sangue nascosto della tecnologia moderna”, ha dichiarato Glenn Burm, responsabile globale per i semiconduttori di PwC Corea del Sud. E ha ragione. Ogni CEO, ogni startup, ogni governo che oggi parla di AI generativa, edge computing o cybersecurity dipende da una catena di approvvigionamento più fragile di quanto si voglia ammettere. Una fragilità paradossalmente idrica, in un settore che pensa a se stesso come immateriale, etereo, post-industriale. Silicon Valley è, alla fine, ancora valley.
Il problema, ovviamente, non è solo il rame. Anche la fabbricazione dei wafer di silicio – cuore pulsante dei processori – è un processo estremamente idrovoro. Lavaggi chimici, raffreddamento, pulizia ultra-pura: ogni chip è praticamente immerso in acqua per gran parte della sua “gestazione”. E l’acqua, che in Occidente consideriamo un diritto acquisito, sta rapidamente diventando una materia prima strategica, al pari del petrolio.
Le contromisure? Ce ne sono, ma tutte costose, lente e insufficienti se il cambiamento climatico accelera. Alcuni Paesi produttori di rame stanno investendo in impianti di desalinizzazione, ottimizzazione dei processi, riciclo dell’acqua. Bene, ma non basta. I produttori di chip esplorano alternative: filamenti d’argento, nanomateriali a base di carbonio, design circuitali più efficienti. Cose interessanti, certo, ma siamo ancora lontani da una vera sostituzione. Nel frattempo, un terzo del rame consumato nel 2022 proveniva da materiali riciclati. Una cifra promettente, che però racconta anche di quanto poco spazio ci sia ancora per incrementare, senza compromettere la qualità.
E poi c’è la geopolitica. Perché oggi la Cina non è solo il più grande consumatore di semiconduttori del mondo, ma anche il maggiore importatore di rame grezzo, con il 60% del totale mondiale. Il doppio nodo tra chip e rame passa da Pechino, e questo aggiunge un ulteriore livello di tensione strategica in un contesto globale già fragile. Le sanzioni, le guerre commerciali, le tensioni su Taiwan: ogni scintilla in quell’area si riverbera su tutto il sistema.
Chi pensa che il futuro sia fatto di algoritmi, dati e metaversi, dovrebbe iniziare a considerare che potrebbe bastare una crisi idrica in una miniera cilena per far collassare la grande illusione tecnologica. I chip non crescono sugli alberi, né vengono scritti nel cloud: nascono da un balletto industriale che coinvolge fonderie, acqua, rame e operazioni ad altissima precisione. E se anche uno solo di questi elementi si inceppa, l’intera filiera si paralizza. Nessun aggiornamento software potrà salvarci da questo.
La narrativa dominante ci ha venduto la tecnologia come qualcosa di immateriale, come se bastasse qualche linea di codice per costruire un mondo nuovo. Ma il codice non esiste senza elettroni, e gli elettroni non scorrono senza metallo. In fondo, l’iperconnessione globale è solo una fragile architettura di rame sospesa sopra un deserto che si espande.